Ciò che si tenterà qui di fare è di applicare, con grandi semplificazioni, il modello di interpretazione testuale che Umberto Eco delinea in Lector in fabula all’analisi del racconto La moglie di Gogol’ di Tommaso Landolfi.
Il modello che Eco propone parte dall’esigenza di spiegare i meccanismi che regolano l’interpretazione dei testi. Ad Eco non interessa l’atto di lettura empirico, individuale; cerca piuttosto di delineare le regole, le istruzioni che compongono la strategia testuale. Quest'ultima è presente all’interno del testo stesso e ne permette la corretta ricezione, consiste in una serie di atti cooperativi che vengono richiesti al lettore, come quello di riempire gli spazi bianchi di non detto attraverso inferenze più o meno guidate. Perché un lettore possa svolgere questa attività, dobbiamo immaginarcelo capace di maneggiare un modello semantico del tipo enciclopedia piuttosto che del tipo dizionario. Questo vuol dire che ad un dato termine non corrisponde soltanto un significato di tipo definitorio (le sue marche denotative costanti) ma anche una serie di frames. Essi sono delle sceneggiature composte da una serie di termini pertinenti che illustrano l'utilizzo corrente di una parola. Riportiamo qui l'esempio di Lector in fabula (Eco, 1979, 18). Un leone può essere trovato, di solito, in tre situazioni: nella giungla, al circo e allo zoo. Ad un leone situato in una giungla ci si riferirà con termini che connotano «libertà», «ferocia» eccetera. Questi termini sono presenti nella sceneggiatura «leone allo zoo» che a sua volta è insita nel semema «leone».
Da questa prospettiva siamo in grado di affermare che ogni parola contiene in nuce ogni sua possibile espansione; ad ogni semema sono collegati tutta una serie di frames con i relativi universi di discorso e termini pertinenti. Il risultato è la seguente definizione: «il semema deve apparire come un testo virtuale e un testo altro non è che l’espansione di un semema» (Eco, 1979, 23).
La teoria semiotica su cui si fonda questo processo è quella di Peirce. Senza dilungarci diremo soltanto che, per Peirce, la semiosi influisce sulla nostra praxis: un segno (ad esempio un testo) mi può dire qualcosa che non sapevo di un determinato oggetto, fornendo materiale per un’interpretazione più approfondita di esso e spingendomi a comportarmi nei suoi confronti in modo diverso. Quando un input (un segno) arriva più volte, si instaurano delle abitudini assestate storicamente, anche se sempre modificabili. Ad esempio: dopo che abbiamo visto varie persone allacciarsi le scarpe, anche noi inizieremo a comprenderne l'utilità e a comportarci nello stesso modo; il gesto diventa meccanico, ma infinite variazioni nei nodi sono possibili: magari nei prossimi anni si affermerà un nodo diverso rispetto a quello che utilizziamo oggi[1]. Le nostre interpretazioni sono, dunque, a loro volta dei segni che forniscono materiale per nuove interpretazioni; esse, se inedite, possono modificare la praxis.
Riprendendo le fila del discorso di Eco, il semiologo ritiene che la corretta interpretazione di un testo sia possibile grazie ad una strategia interna al testo chiamata «lettore modello». Essa consiste nelle mosse che il lettore deve fare per attualizzare il testo. Letture diverse, influenzate da altri elementi - suggestioni legate alla fantasia del lettore, pretese di comprendere la psicologia dell'autore, tentativi di far parlare l'opera al proprio momento storico ecc - sono usi del testo che non interessano ad Eco (che aspira ad una teoria universale dell'interpretazione, che non trovi fondamento nell'intuitività del singolo lettore).
Per quel che riguarda lo stile di Tommaso Landolfi in genere, esso si serve ampiamente di termini arcaici o di raro uso, risulta spesso complesso e oscuro - vedi il celebre inizio del racconto La passeggiata -, non vuole essere immediatamente accessibile. In altre parole, richiede al lettore di non accontentarsi del solito modo di parlare (le praxeis assestate di cui parla Peirce). Richiede uno sforzo, che consiste nell’esercitare la semiosi: far lievitare il testo grazie a nuovi collegamenti che si devono mettere in campo, acquisendo così nuove conoscenze.
Passiamo ora all’analisi de La moglie di Gogol'. Il racconto sembra prestarsi alle più disparate interpretazioni, cercheremo tuttavia di mettere in luce quella che meglio si accorda agli elementi forniti dal solo testo, seguendo la sua strategia interna.
La voce narrante esordisce con un avvertimento: non è possibile giudicare di quanto sarà raccontato, anche se sotto sotto io un giudizio ce l'ho, ed è di riprovazione (Landolfi, 1994, 19). Il primo paragrafo, intriso di retorica ed ironia, non può che mettere in guardia il lettore sulla buona fede del narratore.
Ciò che emerge, in prima battuta, è la forte oscillazione sulla natura di Caracas. Segnali contrastanti vengono mandati dall'autore interno al testo (o meglio, dalla strategia che lo rappresenta: l'«autore modello»): ora ci si riferisce a Caracas come ad un fantoccio, ora come ad un essere vivente. Una scelta definitiva è impossibile; il lettore trarrà piacere nell'osservare le proprie oscillazioni e i propri tentativi - inevitabilmente frustrati - di rendere coerente il personaggio.
Ma cosa accade, a livello semantico, intorno alla figura di Caracas? Ogni temine possiede delle marche denotative costanti che caratterizzano il suo significato da dizionario. Caracas è sia un fantoccio (marche denotative: «materiale inorganico», «sembianza umana») che una donna («essere umano», «sesso femminile»). I due termini, ovviamente, presentano proprietà non compatibili tra loro: un fantoccio è per definizione un essere non vivente, una donna è per definizione un essere vivente. Ci ritroviamo così ad avere un'espansione testuale - nella fattispecie Caracas - che contraddice le marche denotative dei termini che la descrivono. E' proprio da questo che scaturisce il carattere grottesco e perturbante della moglie di Gogol'. Eco illustra il processo che è in ballo qui parlando della metafora: «la metafora si realizza quando di due unità semantiche l'una diventa l'espressione dell'altra a causa di un amalgama realizzato su una proprietà che entrambe hanno in comune […] nomino l'entità x (fornita delle proprietà a, b e c) attraverso la sua sostituzione con l'entità y (fornita delle proprietà d, c, e), per amalgama sulla proprietà c, e in tal modo prefiguro una sorta di unità semantica inedita fornita delle proprietà a, b, c, d, e» (Eco, 1979, 153). Contestualmente, poco dopo Eco fa l'esempio di un mondo dove vengano immaginate delle donne-cigno. Dunque, la natura «fantoccio» e la natura «donna» possono essere unificate nella figura di Caracas (che possiede le proprietà di entrambe) facendo perno sulla proprietà comune di essere legate a Gogol' dal vincolo matrimoniale. Infatti, l’unico dato che sembra veramente incontrovertibile è che Caracas sia e resti la moglie di Gogol’. Per il resto, il lettore si rende conto di non aver alcuna notizia certa, alcun solido appiglio: così come l'intreccio viola verità logicamente necessarie (come spiegare il contagio della sifilide?) così il narratore non manca di rimarcare la difficoltà ad esprimersi con sicurezza. Allo stesso tempo non possiamo aspirare a comprendere gli atti di Gogol': viene addirittura introdotto più volte il sospetto che egli sia drogato (Landolfi, 1994, 27). Possiamo pensare che La moglie di Gogol' voglia proprio parlarci della poca credibilità del racconto biografico, pieno di dati favolistici o comunque non verificabili, frutto delle scelte poco limpide del biografo. Le battute finali avvalorano questa tesi: rintuzzando terribili e insensate accuse nei confronti di Gogol' il biografo ritiene di aver fatto il suo dovere, ossia quello di giovare alla memoria dell'eccelso scrittore (Landolfi, 1994, 32).
Tuttavia, poco prima che lo scrittore russo getti nel fuoco Caracas e suo figlio, vi è un riferimento esplicito al rogo, ad opera di Gogol', dei manoscritti della seconda parte de Le anime morte, che avvenne realmente nel 1852 (Landolfi, 1994, 28). L'episodio è decisivo ai fini del racconto e non può non colpire il lettore. Si potrebbe dunque intendere l’analogia tra i due roghi come una vera e propria indicazione: il rapporto che lo scrittore russo instaurò con la moglie è della stessa natura di quello che instaurò con la sua opera letteraria. Potrebbe essere così risolto il rebus circa l’ambigua figura di Caracas. Ciò sembra, tra l'altro, suggerito dal testo stesso, anche se per via negativa: «Altra cosa è tentar di stabilire in che propriamente consistesse la qualità comune a tutte quelle forme. Può darsi fosse né più né meno che il soffio creatore medesimo di Nikolaj Vasil'evič. Ma in verità sarebbe stato troppo singolare che egli si fosse sentito tanto scisso da se stesso e tanto a se stesso avverso» (Landolfi, 1994, 25).
Senz'altro una chiave interpretativa di questo tipo, per poter funzionare, richiede un lettore che conosca le vicende biografiche di Gogol' (d'altronde, il titolo del racconto è un'indicazione forte in questo senso). Potremmo allora affermare che il lettore modello de La moglie di Gogol' deve conoscere la biografia dello scrittore russo, così da poter cogliere la potente analogia tra Caracas e opera letteraria.
A questo punto, si può riformulare in senso figurato il rapporto tra lo scrittore russo e sua moglie. L’unico vero amore di Gogol' - che, sappiamo, nella realtà non si sposò mai – non può che essere la scrittura. Essa è un suo prodotto che egli plasma secondo i suoi gusti, è la sua compagna di vita, un’appendice nella quale egli si rispecchia (i mali dell’una sono i mali dell’altro: la sifilide, l’invecchiamento e le manie religiose). Insomma lo scrittore, amando la propria opera, non ama altri che se stesso. Tuttavia sappiamo che l’essere umano è spesso straniero in casa propria, dominato da pulsioni che non controlla. E così come l’opera non è riducibile alle intenzioni di chi l’ha scritta, ma può avere una sua autonomia, così Caracas manifesta velleità d’indipendenza. Finché Gogol', non più lucido e non più in grado di dominarsi, arriva a distruggere Caracas, e con lei una parte di se stesso. E’ immediato il riferimento alla terribile crisi spirituale che portò Gogol' a bruciare il manoscritto della seconda parte de Le anime morte: sappiamo che lo scrittore russo fu sempre dilaniato tra sentimenti di compassione cristiana e una concezione pessimistica dell’umanità, per la quale non ci sarebbe speranza di salvezza. Il racconto, con espressioni come «vedi, dunque, Foma Paskalovič, qual era il nocciolo di Caracas: essa è lo spirito della sifilide!» (Landolfi, 1994, 25) vuole spingerci a credere che sia la scrittura in sé, contando su una sorta di autonomia, a corrompere e destabilizzare l’autore; ma noi possiamo anche immaginare sia egli stesso ad essere attraversato da forze contrastanti che si riflettono sull’opera (e sull’atto della sua distruzione).
Possiamo considerare così La moglie di Gogol' un'espansione del semema «scrittura». Il semema, tuttavia, non è mai nominato nel testo: è richiesto però dal testo stesso che il lettore lo inserisca. In questo modo, il racconto va ad arricchire il nostro patrimonio di informazioni circa il rapporto tra scrittore e opera letteraria.
E’ previsto dal testo che il lettore modello del nostro racconto, conoscendo le opere di Gogol', sappia anche come funzioni la formazione dei nomi in russo. Il biografo della nostra storia si chiama Foma Paskalovič, la traduzione italiana del nome suonerebbe: Tommaso figlio di Pasquale (che è effettivamente il nome del padre di Tommaso Landolfi). Sappiamo che Tommaso Landolfi ha tradotto diverse opere di Gogol'. Qui, nel suo racconto, ha scelto di impersonare l'ambiguo biografo, che non si sa se faccia il bene o il male dello scrittore oggetto del proprio studio, che, utilizzando lo stile grottesco di Gogol', ci racconta della sua vita tormentata. Il modello impersonale di Eco ci chiede a gran voce di non considerare l'autore empirico, di lasciarlo fuori dalla porta per attenerci unicamente alle indicazioni che ci fornisce l'autore interno al testo. Ma Landolfi non si è accontentato di scrivere il racconto, vuole entrarci dentro.
In fin dei conti, Umberto Eco e Tommaso Landolfi ci indicano due modi diversi (e non compatibili) di entrare in contatto con un’opera. Per Eco l’autore di un testo è solamente l’espediente che ha dato vita allo scritto, dopodiché esce di scena e non è più chiamato in causa nell’ambito dell’interpretazione. Il lector, invece, è nella fabula, ma solo finché segue le regole e fa ciò che è previsto che egli faccia. In quest’ottica, il lettore può anche essere solamente postulato: non è importante che ci sia qualcuno che effettivamente andrà a leggere il testo in questione.
Per quanto riguarda Landolfi, egli sembra aver scelto di entrare ne La moglie di Gogol’ proprio per ricordarci che ogni scritto - in particolar modo se narrativo - è intriso del vissuto del proprio autore. Il racconto e il suo scrittore non si possono separare. E come potrebbe essere altrimenti, se l’opera letteraria è la compagna di vita dello scrittore, e se nel testo l’autore si rispecchia? Tuttavia, Landolfi non è solo questo: egli rappresenta anche il lettore, l’appassionato lettore (e traduttore) di Gogol'. Così come il biografo riporta un’immagine contorta e deformata dello scrittore oggetto del proprio studio, allo stesso modo il lettore può comportarsi con l’opera, essendo forse impossibile e anche poco auspicabile un’interpretazione impersonale completamente priva di elementi di disturbo. D'altronde è Eco stesso a notare come gli usi del testo possano condurre ad esiti inaspettati! (Eco, 1979, 57). Credo che, negli atti di lettura che effettivamente avvengono, si continuerà a correre questo rischio, contravvenendo inevitabilmente alle indicazioni di Lector in fabula.
Bibliografia
U. Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 1979.
T. Landolfi, La moglie di Gogol', in Ombre (1954), Milano, Adelphi, 1994.
T. Landolfi, La passeggiata, in Racconti impossibili, Firenze, Vallecchi, 1966.
[1] Mi sembra qualcosa di più che una semplice suggestione la risonanza tra le abitudini assestate di Peirce e il «seguire una regola» di Wittgenstein.
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