Il testo che vado ad analizzare è un racconto di Tommaso Landolfi, La moglie di Gogol’, pubblicato dall’autore nel 1954.
A circa un terzo del racconto può, a mio avviso, essere individuata una cesura del testo, un punto di svolta; là dove il narratore comincia a parlare del personaggio di Caracas, una bambola gonfiabile, come fosse una donna in carne ed ossa (analizzandone i diversi organi vitali e facendo cenno per la prima volta alla sua voce), in un movimento definibile come continuo dire e disdire, anche il lettore è chiamato a cambiare prospettiva.
Leggendo frasi come «né di ogni cosa rispondere con altrettanta e assoluta certezza» o «alla rinfusa, alcuni ricordi» (Landolfi 1994, 23), inevitabilmente appare minacciosa in lontananza la sfiducia nei confronti di ciò che si sta leggendo. Nelle pagine seguenti si alterneranno periodi che esprimono una rinnovata sicurezza da parte del biografo (che cominciamo progressivamente a considerare un narratore) e periodi in cui invece egli stesso sembra mettere le mani avanti rispetto a quanto si accinge a raccontare: «non è che uno schematico tentativo di spiegazione», «senza far parte veruna alle mie personali impressioni», «tanto oscuri, che mi passo dal riportarli oltre», fino a «i miei lettori si formino da sé la propria opinione» (25-28).
Definirei questo processo un progressivo abdicare da parte del narratore alla volontà di un lettore a cui viene lasciata la libertà di credere oppure no. Fino al rimando finale ad un’assente «altra parte del presente volume» (32), nel momento in cui, letta la conclusione, si è più incerti che in principio. Un rimando al vuoto per confermare che la verità sul fatto è definitivamente messa in questione.
Questa continua oscillazione all’interno del testo ricorda da una parte il «mutuo contratto di educata sfiducia» (Eco 1979, 197) di cui parla Eco riguardo al racconto di Alphonse Allais, Un drame bien parisien, a proposito di un narratore parlante in prima persona e allo stesso tempo ironicamente estraneo alla fabula (distacco che, intendiamoci, si manifesta attraverso pesanti interventi da parte dello stesso); dall’altra ci fa tornare alla mente la costante oscillazione tra un totale coinvolgimento e un distacco latente di cui scrive Iser, arrivando a parlare della formazione di una terza dimensione che comprenda entrambi i poli. Iser si riferiva ad un distanziamento procurato dal lettore stesso, laddove le sintesi attuate da quest’ultimo durante il processo di costruzione di coerenza del testo narrativo, raggruppamenti familiari che colgono le differenze significative assumendo così il carattere di riconfigurazione, divengono ai suoi occhi sempre più oggettive (se pur intersoggettivamente accessibili) ed esposte ad un vero e proprio bombardamento da parte di quelle Gestalten quali possibilità via via escluse come non familiari, e che pure rimangono nella scia delle successive proiezioni; al contrario qui la distanza si crea, a mio parere, non nella riconfigurazione bensì alla prima lettura, quella più guidata da una narrazione che interrompe frequentemente il corso degli eventi. Dunque il coinvolgimento non è coinvolgimento ingenuo bensì è tale solo quando, alla seconda lettura, diviene consapevole e, oserei dire, libero.
Finito di leggere il testo per la prima volta si ha voglia di rileggerlo per dargli un proprio senso, non quello costruito dal narratore. Interessante è, a questo proposito, quello che Sanguineti scrive di Landolfi riferendosi nello specifico ad un altro racconto, La donna nella pozzanghera (seconda parte de La piccola Apocalisse, 1935): l’autore «riesce perfetto e insieme insopportabile nell’ostentazione del calcolo» (Sanguineti 2008, 548); o riferendosi ad un altro racconto ancora, Le due zittelle (1945): l’autore manifesta attraverso «ossessivi interventi diretti» da parte del narratore un’«ostentazione di complicità nella costruzione del narrato» (551). Quel punto di vista mobile che alla prima lettura è continuamente sospinto in avanti da una voce che ci parla del momento finale, di una spiegazione che arriverà, di una futura chiarificazione («Non è però prudente, lo vedremo, insistere su tale punto», «fornirà solo una risposta purchessia», «una memoranda serata di cui oltre», «E tuttavia! ... ma non anticipiamo», «affretto il tragico scioglimento», Landolfi 1994, 21-26) è libero alla seconda lettura di tirare indietro il movimento dell’incalzante narratore, di rallentare, di soffermarsi, di decidere, come effettivamente già ci era stato detto alla prima lettura («i miei lettori si formino da sé la propria opinione»).
E tale momento decisionale, finalmente creativo, attivo, ben si accorda con la prospettiva gadameriana di un coinvolgimento che diviene consapevole non a livello coscienziale bensì performativo, in cui si mantengono l’urto, l’alterità, la non familiarità con ciò che abbiamo di fronte e tuttavia nel seno di un processo vivente, in cui dalla tensione scaturisce la responsabilità di una mediazione. Se in prima fase il movimento oscillatorio di distanziamento da colui che scrive ci poneva ancora in un ambito riflessivo in cui rimanevamo soggetti (se pur interni al testo) di fronte ad un oggetto, in un secondo momento capiamo che la giusta via è quella di «comprendersi sulla cosa» (Gadamer 2000, 344), farci interpellare per poi metterci in cerca di una risposta.
Come se l’applicatio di questo racconto, la continuità di senso tra noi e ciò che leggiamo, la risposta all’appello dell’altro (in questo caso il testo) che a nostra volta sviluppiamo come nuova interrogazione, avvenisse in questo caso girando i tacchi rispetto alla fine e guardando il percorso con nuova lucidità. Lucidità di cui comprendiamo il valore proprio e solo in conseguenza delle spinte da parte dell’incalzante narratore in prima lettura.
Il racconto dopo di sé lascia il posto all’assenza, dunque il senso andrà ricercato nella presenza che evidentemente lo caratterizza. Le «protensioni che captano a vuoto ciò che ha da venire» (Iser 1987, 174) si tramutano in questo caso in un vuoto che rimanda alla tensione iniziale, alla materia di cui il racconto si costituisce. E quella sfiducia nata da un primo affidarci a chi ci parla e non a quello che effettivamente leggiamo verrà sostituita da una fiducia che troveremo nella forza delle parole stesse. Gadamerianamente «cercheremo di avvicinarci all’oscura essenza del linguaggio in base al riconoscimento di quel dialogo che noi stessi siamo» (Gadamer 2000, 436), avvertiremo la necessità di una linguisticità alla base del domandare, un venire-alla-parola del contenuto del testo stesso, ricercheremo quel linguaggio comune che ci permetterà di porci in un frammezzo tra noi e il testo, fondando una nuova comunanza sulla verità dell’oggetto e trasformandoci in ciò che abbiamo in comune.
L’autore ha descritto ogni cosa nei minimi dettagli e la strategia vuole che si apprezzi questa intensità trovandola con fatica, e non dandola per scontata. Non immediatamente, bensì attraverso una modulazione temporale che è tanto progressiva da spingerci a ricominciare da capo, ristrutturando ciò che era già in potenza durante la nostra prima lettura.
Forse in definitiva è possibile ravvisare una corrispondenza tra il doppio livello nel testo costituito, da una parte, dal manoscritto da baule del biografo di Gogol’ e, dall’altra, dalla dimensione del racconto (dunque dalla presenza di un vero e proprio narratore), e la duplicità gadameriana tra testo e fatto. Nel momento in cui abbandoniamo la prospettiva di leggere una biografia e riconosciamo il narratore come narratore (in un certo senso rivestente qui il ruolo di risolutore), lo sorprendiamo ad incalzarci e gettarci nell’incertezza e allora ci voltiamo e torniamo indietro a riappropriarci di ciò che ci è stato tolto in un nuovo, consapevole affidamento.
Bibliografia
T. Landolfi, La moglie di Gogol’, in T. Landolfi, Ombre, Milano, Adelphi, 1994, pp. 19-32.
U. Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 1979, pp. 13-66, 186-218.
W. Iser, L’atto della lettura, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 169-205.
H. G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani, 2000, pp. 312-437.
E. Sanguineti, Landolfo VI di Benevento, in L’illuminista, n. 22-23, gennaio/agosto 2008, pp. 329-330.
E. Sanguineti, Un profilo di Tommaso Landolfi, in L’illuminista, n. 22-23, gennaio/agosto 2008, pp. 543-554.
I. Calvino, Postfazione a Le più belle pagine di Tommaso Landolfi, in L’illuminista, n. 22-23, gennaio/agosto 2008, p. 411.
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