| Molti fenomeni nell’attuale  passaggio storico segnalano una difficoltà ed una crisi delle forme e degli  istituti della politica. Ciò risulta tanto più evidente quanto più non  si rinuncia ad un’idea del primato del Politico, e conseguentemente ci si  continua a rivolgere alla “politica” e alle sue decisioni concrete, con forti  aspettative, esigendo da esse la capacità di esprimere un progetto di  orientamento e trasformazione complessiva della società. 
    Prima di analizzare quali sono le linee di crisi della politica oggi,  proviamo a partire da una questione più complessiva: in che stato versa oggi la  democrazia? E i problemi che attualmente la attraversano sono di natura  contingente, o al contrario sono espressione di impasse che si ripropongono  puntualmente, portando alla luce delle soglie di crisi che afferiscono alla sua stessa forma politica?  Fare un discorso sulla  democrazia è operazione sempre molto difficile. Mai come in questo ambito,  infatti, la teoria si scontra con la realtà; i concetti riguardanti la storia  del problema si introducono nei processi reali in modo contraddittorio, e si  assiste ad un intreccio ambivalente tra teoria e prassi che deve essere  dipanato, per chiarire anche solo preliminarmente i termini della questione. Il primo passo in questo senso  può essere quello di circoscrivere storicamente il discorso. Io mi rifiuto  sempre di parlare della “democrazia degli antichi”. Ciò che m’interessa è “la  democrazia dei moderni”, ragionare cioè su quella che in fondo è stata una  forma di pensiero critico della modernità e del tipo di forma sociale che  questa ha introdotto nel mondo. Letta in quest’ottica la democrazia ha avuto un  inizio anche brillante ed una storia relativamente lunga, anche se non  lunghissima, che non è andata tuttavia sempre nella direzione dello sviluppo  delle idee originarie, anzi, molte volte, è andata in una direzione opposta,  generando applicazioni assai distorte rispetto al piano ideale.
 Questa parabola di involuzione  storica è stata illuminata profondamente secondo me a partire da due direzioni  critiche, diverse se non opposte, che oggi più che mai aiutano a sviluppare un  discorso critico sul concetto di democrazia politica; due ordini di critiche  che, pur partendo da punti di vista opposti, rivelano oggi insospettate zone di  convergenza.
 C’è stata in primo luogo una  critica liberale della democrazia, che continua a trovare la propria  espressione paradigmatica in Democrazia in America di Toqueville.
 L’assunto di partenza da cui  partiva Toqueville è che il proprium della democrazia moderna non vada  cercato tanto nelle forme istituzionali di uno stato democratico, quanto nel  profilo di una società democratica. Non a caso Toqueville sposta il proprio  fuoco d’interesse sugli Stati Uniti, cioè sul paese dove si andava affermando  pienamente un principio egualitario a livello sociale, e non esistendo antiche  gerarchie sociali da distruggere, si ripartiva in un certo senso da zero,  ex-novo, in un modo che certamente costituiva un enorme progresso rispetto alla  contrapposizione vetero-europea tra governanti e governati.
 Eppure Toqueville richiamava  l’attenzione sul fatto che la società democratica che si andava concretamente  profilando negli Stati Uniti, non si conciliava fino in fondo con l’idea di  libertà, cosa che l’ideologia liberal-democratica ancor oggi dà per scontato,  pensando che questo accordo sia cosa già fatta.
 Il pericolo fondamentale della  nuova società democratica era individuato da Toqueville nella sua tendenza ad  involversi in una società omogenea, livellata, profondamente ostile ad uno  sviluppo del singolo individuo. In riferimento ai processi individuati da  Toqueville si è parlato di una critica al carattere totalitario della  democrazia, ma si può parlare a questo proposito, forse meglio, di una critica  al carattere illiberale della democrazia.
 C’è stata in secondo luogo  un’altra forma di critica della democrazia, di segno opposto, dicevamo, e cioè  quella che ha preso corpo nella tradizione comunista. Il punto di partenza di  questa critica è stata la famosa distinzione tra democrazia formale e  democrazia sostanziale, distinzione che trovava alimento dalla constatazione  storica che le democrazie occidentali riconoscevano soltanto formalmente la  sovranità popolare, riesibendo di fatto in forme solo mutate, il rapporto di  forza e di dominio tra governanti e governati.
 Io credo che queste due critiche  alla democrazia possano oggi convergere nel fondare un’analisi critica delle  grandi società democratiche occidentali contemporanee. Esse possono aiutare a  rendere consapevoli del fatto che anche le società democratiche, nonostante non  abbiano caratteristiche autoritarie, possono incorporare nel loro seno germi  totalitari. La radice di ciò è che la democrazia sembra rivelare una tendenza  intrinseca alla neutralizzazione della dinamica del conflitto politico, una  tendenza a strutturarsi intorno ad un principio astratto di eguaglianza, che si  risolve in un ordine concettuale identitario, con un fondamentale carattere inclusivo.  La tendenza, prevalente, nelle democrazie “mature”, è non ad escludere, ma ad  accogliere e a omologare. Il melting pot è ad esempio un dispositivo eminentemente democratico: l’integrazione per la  neutralizzazione.
 La democrazia moderna è senza  autonomia del politico. E in questo senso è, anzi, uno dei vettori portanti di  una crisi della politica, E’ rivelatore per me il fatto che la stessa parola  democrazia abbia sempre la necessità di determinarsi attraverso un aggettivo  che rinvia a qualcosa d’altro fuori da sè: si è parlato e si parla di  democrazia-liberale, molto maldestramente si è tentato di realizzare una  democrazia-socialista, e tra l’una e l’altra si è assistito e in parte tuttora  si assiste all’emergere di una democrazia senza aggettivi, la quale però allora  come tale incorpora pulsioni antipolitiche, in senso populista e plebiscitario.
 La consapevolezza che deve essere  sviluppata quindi, è che qualsiasi rivendicazione democratica ha bisogno di  essere molto specificata per assumere un valore realmente emancipativo, non può  cioè rimanere generica, senza assumere una veste ideologica.
 Eppure, si potrebbe obiettare, nel secondo Novecento su scala  nazionale le democrazie occidentali hanno saputo garantire meccanismi, per  quanto imperfetti, di inclusione sociale, di estensione dei diritti di  cittadinanza, e di partecipazione politica. Si può individuare pertanto un  punto di rottura e di svolta negli ultimi anni, in grado di spiegare quella  parabola di progressiva spolicitizzazione della democrazia a cui Lei fa  riferimento? A questo proposito, Lei nei suoi lavori ha parlato di una sorta di  mutazione antropologica della figura del cittadino contemporaneo, che si  sarebbe consumata negli ultimi decenni. Può spiegare a cosa si riferisce con  questa espressione? Io ritengo che per approfondire  il discorso sulla democrazia, e comprenderne l’involuzione a cui prima facevo  riferimento, è necessario scendere su un livello di analisi antropologica, e  comprendere in che modo la democrazia abbia investito e ridisegnato negli  ultimi decenni lo stesso livello antropologico della politica. La mia tesi è  che bisogna chiarire quale sia la natura del cittadino contemporaneo, e per  farlo bisogna riconoscere come nel corso degli ultimi decenni si sia consumato  un incontro ed una pericolosa identificazione tra homo oeconomicus e homo  democraticus. Con questa coppia concettuale  intendo riferirmi al modo in cui per gran parte del Novecento si è ridislocata  la distinzione, teorizzata da Marx in riferimento allo Stato borghese  dell’Ottocento, tra buorgeois e citoyen.
 Il bourgeois nel Novecento  è divenuto sempre di più homo oeconomicus. Quest’ultimo è precedente al  borghese, a ben vedere, esso è l’individuo scoperto dalla grande economia  politica classica di Smith e Ricardo. E tuttavia successivamente, nella  costruzione settecentesca e ottocentesca della società, la figura inizialmente  a tratti perfino eroica del bourgeois, quella per intenderci ancora  celebrata da Weber, è stata riassorbita nella figura umana della persona  privata, rinchiudendosi via via nella forma dell’homo oeconomicus,  dell’individuo acquisitivo e proprietario.
 Il citoyen al contrario, a  partire dalla grande stagione politica tra le due guerre, dove sono entrate in  scena per la prima volta nella storia le masse in politica, sembrava aver preso  definitivamente nel secondo Novecento la forma di homo democraticus, di  cittadino sovrano in grado di prendere la decisione politica.
 Attraverso questa duplice  dislocazione della coppia originaria bourgeois-citoyen sembrava si fosse  approdati cioè, nell’orizzonte della democrazia del secondo dopoguerra, ad un  equilibrio per certi versi virtuoso tra due forme antropologiche: quella dell’homo  oeconomicus da un lato, cioè della persona privata, e quella dell’homo democraticus dall’altro, cioè della persona pubblica, capace di  esprimere un protagonismo politico, sulla base di una possibile contraddizione  tra forma democratica e struttura sociale. E’ stata l’illusione storica della  socialdemocrazia, quella classica, ancora marxista e revisionista.
 E tuttavia questo equilibrio si è  rotto a partire dagli anni ’70, per la stessa ragione che ha sancito la fine  dell’epoca delle grandi masse organizzate: il venir meno cioè di una struttura  di classe in grado di tenere unite le masse e di conferire loro un profilo  identificabile, tanto dal lato oggettivo, attraverso una struttura di  identificazione dotata di un’oggettività economica, tanto dal lato soggettivo,  attraverso una coscienza collettiva unitaria, che riusciva ad esprimersi nelle  organizzazioni politiche, in primis i partiti, prima fautori poi gestori  di uno Stato sociale.
 E’ a partire da questo punto di svolta, che la  democrazia ha assunto sempre più a parer mio il ruolo di fattore di  identificazione collettiva dentro una società data, che fa leva sull’espulsione  di ogni antagonismo e contrapposizione sociale. Le masse sono diventate sempre  di più la massa, cioè un insieme di individui senza classe, incapaci come tale  di autorganizzazione politica: masse manovrabili quindi, come lo erano state  nelle società totalitarie, soltanto che mentre allora esse erano tali perché  sottoposte ad un processo di nazionalizzazione gestito autoritativamente  dall’alto, dentro i sistemi democratici esse lo diventano perché sottoposte ad  un processo di borghesizzazione livellatrice. All’interno della massa  democratica tutti gli individui sono ridotti a borghesi, e la figura dell’homo democraticus, inizialmente separato dall’homo oeconomicus,  si eclissa totalmente nell’individualità isolata di quest’ultimo.
 L’homo democraticus,  il cittadino politico, non è più quindi la persona che sovranamente partecipa  dell’agire pubblico e decide autonomamente, ma si è ridotto tendenzialmente ad  essere un pezzo di massa tendenzialmente manovrata, un individuo che crede di  scegliere e invece viene scelto, crede di decidere ma invece è deciso, crede di  contare ma invece è contato.
 Per me questo processo è  particolarmente visibile in quella forma politica che viene dagli Stati Uniti e  si cerca di esportare anche da noi: le primarie. In queste forme di  consultazione è per me assai evidente, che ad essere chiamate in gioco non sono  masse autodirette, ma masse eterodirette, e questo al di là dei risultati volta  per volta prodotti dalle consulazioni, siano questi buoni o cattivi. Le  primarie per me sono un procedimento che intrinsecamente va più nella direzione  di un’alienazione politica che di una riappropriazione politica.
 Io da questa ricostruzione  storica traggo la conclusione che il sociale oggi è molto più organico  all’attuale assetto proprietario capitalistico del politico, e per questo  continuo a ritenere che solo attraverso una riattivazione della dimensione  propriamente politica si possano innescare processi di trasformazione della  società.
 Paradossalmente, infatti, risulta  ancora molto difficile ricomprendere la politica dentro il sociale, e non a  caso essa continua ad essere vista come qualcosa che sta fuori dalla società.  Questo stare fuori è percepito di solito soltanto in forme negative. Da una parte  il distacco del politico dal sociale è accentuato dall’autoreferenzialità del  mondo politico: ciò che, come reazione, produce il fenomeno dell’anti-politica;  d’altra parte il distacco del politico dal sociale è congelato in un’idea  alternativa ed antagonistica della politica, che rimane qualcosa di elitario,  non in grado di modificare realmente il sociale stesso.
 Manca ancora la capacità di far  leva sull’irriducibilità del politico al sociale per innescare delle  trasformazione di quest’ultimo, che si oppongano all’egemonia borghese in cui  esso è attualmente rappreso.
 E’ importante ribadire come la  posta in gioco di tale questione è né più e né meno che la democrazia, poiché  solo se la politica riprende terreno la democrazia può ritornare ad avere il  suo senso autentico, non di un valore assoluto ma di un terreno di conflitto.
 Proprio su questo punto,  tuttavia,  sembrano addensarsi le  questioni più spinose. Il primato della politica nel Novecento, emergeva su uno  sfondo di presupposti che oggi non sembrano più darsi: in primis, come  Lei ha detto, l’esistenza di una dinamica sociale ben più polarizzata rispetto  a quella attuale, tale da produrre, per certi versi in maniera automatica, una  convergenza collettiva tra individui investiti dagli stessi meccanismi di  eslcusione. In secondo luogo, l’esistenza di uno sfondo ideologico attraverso  cui quei soggetti venivano richiamati ad un percorso politico comune e ad una  chiara meta da raggiungere attraverso le loro lotte.    Due condizioni queste che  permettevano alla politica, per usare una distinzione a cui Lei fa spesso  riferimento, di non ridursi a “rappresentanza” ma di esprimere  “rappresentazioni”, cioè di mettere in forma e render presenti faglie di  trascendimento della società data, in grado di mobilitare e appassionare verso  il futuro. Come riattualizzare queste istanze del Politico in un panorama  radicalmente mutato come il nostro?  La mia critica del concetto di  rappresentanza si fonda essenzialmente sulla constatazione che il sociale, come  ho detto, sia in questa fase completamente inserito nella logica capitalistica.  Io non riesco a scorgere nel sociale la presenza di elementi conflittuali  forti, in grado di sottoporre a critica la forma capitalistica che la società  ha assunto. Qualsiasi movimento sociale puro, anche se mosso da intenzionalità  antagonistiche, oggi sembra non poter non scontare una subalternità all’attuale  egemonia culturale e politico-economica. Questo mi sembra un dato di realtà,  così come un dato di realtà mi sembra il fatto che ogni tentativo di  rappresentare il sociale in questa fase finisce con il dare rappresentanza ad  una realtà immodificabile. E’ per questa ragione che avanzo il tentativo di  trovare qualcosa fuori.Ciò detto è indubbio che alcune  categorie novecentesche del politico fanno difficoltà oggi ad essere riproposte  come soluzione della questione sociale: far riferimento ad un concetto di  politica come autonomia, come primato, come espressione di forza e di forza  organizzata, suona oggi come un ricorso ad uno spettro di categorie improprie,  tanto più tali quanto più le si commisura alla vivacità del nuovo  sociale-civile, che la fa da protagonista.
 Ciononostante, io penso che  continua ad esserci la necessità di rimettere al centro il problema della  ricostruzione del terreno politico, delle forme politiche, della decisione  politica, e ciò attraverso la formazione di nuove élites, in grado di tenere in  pugno la fase che attraversa la società, ed in grado di riproporre un progetto  di ampia trasformazione di quest’ultima.
 Non si può ancora definire il  modo in cui questo lavoro possa essere realizzato, anche perché le forme  politiche sono state travolte dall’esaurimento di quelle categorie  novecentesche della politica. Si pensi a questo proposito alla crisi  dell’organizzazione del partito di massa.
 E tuttavia, pur assumendo che le  future forze politiche non possano ripercorrere sic et simpliciter la  strada battuta dalle forme politiche del passato, ritengo comunque ineludibile  riscoprire il senso del politico come dimensione dotata di una sostanza e di  una forza esterna alla società, in questo senso trascendente, una dimensione in  grado per questo di riproporre i temi del cambiamento dal di fuori del sociale,  anche dal di sopra se si vuole.
 Più che una soluzione politica  questa io la concepisco come una forma di ricerca: come si potrebbe dire, la  ricerca di un terreno nuovo e tuttavia già sperimentato. A cambiare devono  essere le forme, ma cambiando le forme bisogna recuperare il senso di una  politica in grado di intervenire sul sociale, in grado di orientarlo, di  dirigerlo, per ricomporre a partire da queste basi i termini della decisione  politica.
 Sulla base di una radicale diagnosi negativa del sociale dunque Lei si  appella ad un concetto verticale del Politico e della politica. Non si  sottovalutano in questo modo però le potenzialità positive che emergono nel  sociale stesso,  espresse da gruppi o singoli, che attaverso pratiche  e stili di vita alternativi, trascendono dall’interno, come si potrebbe dire,  le attuali forme di pensiero egemoniche? Il tramonto della “grande politica”,  in questo senso, non può essere l’occasione per rivalorizzare la libertà  e l’autonomia dei singoli, e per riorientare queste  ultime   su contenuti realmente emancipativi? 
 Io sono molto sensibile al tema  della libertà, e anzi credo che una delle accuse fondamentali che vanno mosse  all’attuale realizzazione dei sistemi democratici, è proprio la soppressione  cui esse mettono capo, di fatto, della libertà sostanziale del singolo,  nonostante proclamino ogni giorno essere esattamente questo che formalmente  vogliono conservare e garantire.
 In realtà nessuno di noi è singolarmente  libero, siamo dentro una gabbia, una gabbia che forse non è più d’acciaio, è di  plastica ormai, oppure virtuale, composta da comunicazioni che provengono  dall’alto verso il basso…, ma poi forse non c’è più nemmeno bisogno di  figurarsi una gabbia, a tal punto abbiamo interiorizzato in noi stessi  l’incapacità di essere liberi dai vincoli dell’opinione comune.
 Io credo che sia in corso una  decadenza della forma individuale umana, una decadenza che ha a che fare non  più con la crisi della “libertà di espressione”, ma con la crisi della “libertà  di pensiero”. La cosa meno diffusa oggi, la cosa più rara, è la mentis libertas di cui parlava Spinoza, cioè la libertà intellettuale, il ragionare per sé, al  di là dei dettami dell’opinione corrente. Questa è la cosa più grave, questa  dittatura dell’opinione, dell’opinione maggioritaria, a cui tutti si attengono  e a cui tutti si inchinano. E non si fa più nemmeno lo sforzo di ubbidire  perché questa communis opinio è stata interiorizzata: ognuno crede di  pensare liberamente e per sé, ed invece non fa che ripetere quello che pensano  tutti.
 Io considero questo l’esito dei  cosiddetti sistemi democratici, e in ciò io vedo il fallimento del progetto  moderno. La modernità è partita da una grande enfasi sull’individuo che si è  incarnata nell’ideale dell’uomo del Rinascimento, ed approda a quei fenomeni  che già Nietzsche aveva stigmatizzato parlando di “ultimo uomo” e di “gregge”.  La criticità della situazione contemporanea è per me che il gregge, la massa,  di cui parlava Nietzsche, oggi non ha più nemmeno bisogno di un pastore per  essere gregge, nonostante poi sia disponibile a correre dietro al pastore di  turno che arriva. Ma non è questo o quel pastore secondo me che deve  preoccupare, quanto invece “l’autonomia del gregge”, come si potrebbe  dire.
 Questa è secondo me la critica  della democrazia che dovrebbero fare coloro che provengono dalla storia del  movimento operario, dalla tradizione socialista e comunista, ed invece non  fanno, attardandosi al contrario ad abbracciare un’idea di società liberale che  nella realtà non c’è più.
 Ciò che un pensiero critico  dovrebbe mettere a nudo è l’esautoramento della libertà individuale a cui oggi  si assiste, a causa non di una soluzione autoritaria, ma di una soluzione  democratica. E’ questo un discorso molto difficile da fare, quasi  incomprensibile ai più, e forse la ragione di ciò sta nel fatto che non è  ancora maturo per essere espresso in forme chiare. Tuttavia non è escluso che  nei prossimi anni riusciremo a trovare il bandolo per dare a questo problema  un’espressione chiara. Solo allora potrà risultare un argomento comprensibile e  convincente, acquisibile forse anche a livello di grandi numeri.
 Nell’attuale sfera pubblica, anche a causa del venir meno della  funzione prima svolta dalla politica, si assiste all’emergere di un nuovo  protagonismo pubblico delle religioni,  spesso attraversate da forme di integrismo  e fondamentalismo. Eppure, spesso si contrappone a questa emergenza pubblica  della religione un concetto di laicità che sembra non riuscire ad offrire  orizzonti valoriali propri. Da dove ripartire quindi per ricostituire un  concetto di laicità che possa offrire  un ambito reale di incontro tra  atei e credenti? Io credo che mai come in questo  momento sia necessario farsi carico di una critica del fondamentalismo,  dovunque esso alligni: oggi c’è un fondamentalismo religioso, non meno che un  fondamentalismo laico, c’è un fondamentalismo teocratico, non meno di un  fondamentalismo democratico. Laddove soluzioni teologiche o politiche diventano  definitive o senza alternativa, lì il pericolo del fondamentalismo cresce, e  diventa un fattore assai preoccupante.D’altra parte per me, la critica  del fondamentalismo non è la stessa cosa della critica della religione. Io  faccio sempre una distinzione tra la religione e il religioso: la religione è  fatta di apparati chiesastici, di gerarchie e strutture, il religioso al  contrario è una dimensione ed un bisogno umano, legato alla imperfezione,  alla  fragilità e transitorietà di noi  esseri terreni.
 Il religioso è una dimensione  eterna con cui bisogna fare i conti, ed è stato un errore storico delle ideologie  novecentesche emancipatrici e liberatrici quello di contrapporsi al sentimento  del religioso nell’uomo, contrapposizione del resto insensata, anche perché  l’appartenenza ad una fede ideologica terrena, trae alimento secondo me anche  da questa dimensione del religioso.
 Credere in qualche cosa per me è  molto importante, ho più paura dell’incredulità che del credere. E’ stato detto  che il problema oggi non è che non si crede più a niente, ma che si crede a  tutto, ma a veder bene si crede a tutto proprio perché non si crede più a  niente, cioè perché non si ha più una fede propria, e si diventa disponibili a  credere a ciò che viene raccontato e offerto dal mercato.
 Secondo me, al contrario, bisogna  riscoprire il senso di fedi collettive, non di una verità che vale per tutti  ma, come si potrebbe dire, di una verità assoluta di parte, cioè non di una  verità che vale per tutti, ma di una verità che vale per una parte, per un  pezzo di mondo. Il credere in qualche cosa collettivamente, insieme, non ha il  senso di contrapporsi ad altri, ma quello di diventare coscienti di sé, ed  anche il singolo individuo, se vuole approfondire se stesso e la propria  interiorità, deve in qualche modo ritrovarsi insieme ad altri individui che  camminano nello stessa direzione di ricerca, deve inscriversi in  un’appartenenza.
 Io credo che questo accordarsi ad  un’appartenenza comune sia necessario, perché la laicità assoluta
 rischia di lasciare il singolo  individuo in balia solo di se stesso, lasciandolo con ciò in balia di tutto, senza  più la forza di contrapporsi come individuo al resto. Per contrapporsi bisogna  che si sia in tanti, in tanti a pensare la stessa cosa., ma ognuno a pensarla  liberamente da sé e in sé.
 Questa funzione era svolta un  tempo da quelle che sono state chiamate, in termini per lo più dispregiativi,  le grandi narrazioni ideologiche, di cui ci si è convinti sia stato un bene che  siano morte. Però la loro morte ha aperto questo panorama preoccupante, fatto  di fondamentalismi da un lato e di incredulità assoluta dall’altro, cose  opposte ma entrambe negative.
 Riscoprire il senso di  un’appartennza collettiva, di una fede in qualche ideale comune è per me una  via di mezzo che bisogna continuare a cercare. Io con ciò penso ad una fede  politica, più che religiosa, e tuttavia ogni fede politica attinge secondo me  necessariamente ad una dimensione profonda, che è quella del religioso, cioè ad  una dimensione che non ubbidisce a gerarchie, ma ad un bisogno interiore da  condividere. E’ una frontiera molto aspra da conseguire, però anche molto  interessante da ricercare.
 Che ruolo assegna in questa  ricerca alla filosofia, e più in generale che funzione deve svolgere  secondo Lei la filosofia come sapere critico  e razionale nella sfera pubblica?  Io non ho molta fiducia nei filosofi,  specialmente nei filosofi di oggi. Scorgo anzi un segno di decadenza del  pensiero, una sua svendita al supermercato, in questo moltiplicarsi di festival  e di occasioni piazzaiole, la filosofia-spettacolo, da cui mi tengo debitamente  distante.  Io continuo ad essere fedele ad  una concezione militante della filosofia, ad un’idea di filosofia come qualcosa  di indissolubilmente legato all’impegno della prassi. E tuttavia l’esperienza  storica ci ha insegnato che occorre coniugare impegno e disincanto. Lavorare su  se stessi per essere bene contro il mondo. Ecco, io credo che oggi, più di  ieri, non si possa fare filosofia se non nel segno di un costante atteggiamento  di critica su tutto ciò che è.
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