| Nell’attuale panorama nazionale e  internazionale crede che la filosofia sia chiamata a un rinnovato impegno  politico? Ognuna delle  tradizionali declinazioni del cosiddetto “impegno”  politico della filosofia, da quello classicamente  gramsciano, tipico della cultura marxista italiana, a quello  marxista-esistenzialista di Sartre nella Francia degli anni Sessanta e  Settanta, appare ormai priva di valore e risulta del tutto inutilizzabile.  Questo stato di cose deve essere apprezzato come un evento che ha liberato la  filosofia da legami letteralmente eteronomi e l’ha riconsegnata alle funzioni  che sono autenticamente ed autonomamente le sue. Ciò non vuol dire che la  filosofia non debba interrogarsi su quel che accade sulla scena storica e  politica, ma che deve farlo per scoprire, o anche problematizzare, il senso di  quel che la storia attuale volta per volta offre, in una direzione che non può  essere quella prefissata dall’interesse politico, quale che sia il segno di  quest’ultimo. La filosofia non sta al servizio di una politica ‘di progresso’  perché piuttosto si interroga sulla legittimità dell’uso a fini pratici, anche  nobilmente pratici, di tale nozione. La questione del rapporto della filosofia  con l’impegno politico deve, dunque, essere rovesciata. Ci si deve chiedere  fino a che punto la politica si senta impegnata verso la filosofia, ossia fino  a che punto, pur conservando la propria caratteristica di azione mirante alla  conquista del potere pubblico in base a programmi, essa si nutra delle  sollecitazioni e persino si serva del vocabolario, di quel modo del pensare  tipicamente astratto e astorico cui si dà il nome di “filosofia”. In tale  contesto, la filosofia  potrebbe giocare  il ruolo, essenziale alla rinascita in chiave liberale e democratica del nostro  paese, di sottrarre la vita pubblica alla sua iperpoliticizzazione, alla  ipertrofia della ‘politique politicienne’,   restituendole il vitale rapporto di scambio con la società civile, luogo  unico dove il pensiero filosofico appoggia il suo corpo mondano. In un senso  del tutto diverso da quello delle varie ‘teorie dell’impegno’, il ruolo della  filosofia appare dunque cruciale per la vita di un paese ormai logorato da una  politica delegittimata ed autoreferenziale. L’aspirazione universale della razionalità  filosofica cosa perde e cosa guadagna quando, facendosi politica, entra a far  parte del mondo dell’agire determinato? La vocazione  universalistica della filosofia è uno strumento concettuale insostituibile per  garantire la coesistenza e l’incontro tra le differenti culture. L’universalità  (anzitutto etica, ma non solo, perché altrettanto importante è la reciproca  traducibilità degli “schemi concettuali”, per usare il linguaggio di Donald  Davidson) è infatti  trascendentalmente  rivolta al mondo, cui essa offre il più saldo ancoraggio a progetti politici  che senza abbandonare la conflittualità consustanziale alle scelte politiche,  non dimentichino che “socievolezza” e “insocievolezza” sono kantianamente  connesse da un legame funzionale di reciprocità. Ne consegue che ogni  apparentamento della filosofia alle opzioni politiche di un partito politico,  per quanto queste ultime possano essere nobilmente intenzionate, conduce alla  rovina la sua autonomia, insieme alla vitale distinzione delle sfere della vita  pubblica e privata. L’edificazione, la costante salvaguardia e la strenua  difesa dell’etica pubblica  diverrebbero  impossibili. Vi sono, a Suo parere, specifiche tematiche  a partire dalle quali la filosofia può avvicinare la politica? La filosofia  ha il compito di fornire alla politica reale la definizione o le definizioni  dell’agire politico storicamente succedutesi, affinché anche il più pratico e  semplice, ma onesto e leale, dei politici, ricordi e al tempo stesso viva nella  sua attività lo spessore della sedimentazione di esperienze e di teorie che  comunque rivivono in ogni suo gesto. Un innesto di consapevolezza filosofica,  sia pure non scolastica e non astratta, nella coscienza dei politici è urgente,  e anche possibile. L’etica pubblica si fonda sulla moralità privata e  quest’ultima non sorge senza una consapevolezza teorica anche minima. Attraverso differenti modalità la società  civile manifesta in questo periodo storico una diffusa insofferenza dinanzi  alle strutture tradizionali della politica. E’ solo l’espressione di un  desiderio dissidente o il diffuso sentimento antipolitico costituisce la reale  indicazione di un motivato malessere? Le  manifestazioni antipolitiche o contropolitiche che si moltiplicano in Italia  sono l’espressione genuina di un sentimento di malessere reale, che va  ascoltato e a cui si deve fornire una risposta urgente. Essendo del tutto  evidente la natura non antidemocratica delle manifestazioni antipolitiche che  mettono sotto accusa ‘questa’ vita politica e istituzionale corrotta e decaduta  e ‘questi’ politici, che letteralmente alimentano il proprio potere separato  della propria stessa autodelegittimazione, esse sono espressione di una forte  esigenza di rifondazione della democrazia, attraverso la restituzione alla  sovranità popolare vulnerata dalla politica separata, del suo ruolo di  fondamento di legittimità. La crisi di partecipazione che affligge da  decenni il nostro paese può ritenersi solamente il risultato di  un’insoddisfazione dinanzi ai tempi e ai modi della politica, colmabile, cioè,  con un adeguato piano di riforme, o può considerarsi il sintomo di una più  radicale crisi della modalità rappresentativa della democrazia?  La modalità  rappresentativa della democrazia esige una verifica costante dei propri modi di  funzionamento. E’ ben noto fin da Tocqueville (ma si potrebbe risalire anche  all’analisi della degenerazione delle forme politiche di Aristotele) che la  democrazia può trovare entro se stessa i suoi peggiori nemici, anzi che essa  può, mantenendo intatta la formalità delle procedure, diventare la peggiore  nemica di se stessa. Su questo rischio si deve costantemente vigilare,  utilizzando di nuovo lo strumento classicamente filosofico della distinzione.  La forma istituzionale  democratica non  coincide con e non si esaurisce nella classe politica che la fa funzionare e  che può farla funzionare – è quello che sta accadendo in Italia – contro se  stessa, ossia contro il popolo sovrano, e a proprio vantaggio. L’autorità religiosa interviene, di recente,  sempre più spesso negli affari della politica istituzionale, là dove,  soprattutto, è questione di stabilire il limite morale all’utilizzo di  determinate tecnologie mediche (si vedano le numerose pronunce della CEI sulla  legge 40). In che misura la razionalità filosofica può aiutare la politica  nello sviluppo di un approccio laico alle questioni bioetiche? Cosa potrebbe  fare, cioè, la filosofia per riabilitare la discussione politica al ruolo di  concorrente preferibile alla religione?    La religione  non può essere, in uno stato laico, una concorrente della filosofia. Essa è  infatti una delle espressioni fra le tante della complessa vita della società  civile, la cui ricchezza e vitalità si accresce con l’accrescersi delle sue  voci, delle sue opinioni, tra le quali quelle delle varie fedi religiose. Un  filosofia attenta a difendere la laicità dello stato come mezzo per difendere  anche la propria voce tra quelle che parlano nella società civile prenderà atto  che nelle questioni bioetiche leggi dello stato rigorose ma aperte, liberali e  fiduciose nella serietà morale con cui ogni singola coscienza decide,  legittimano e autorizzano opzioni anche estreme, e che le scelte concrete di  parte religiosa divergono dalle scelte laiche. Poiché tuttavia entrambe sono ispirate  a valori assoluti, che in quanto tali, in quanto cioè assoluti, divergono nei  modi dell’assolutezza ma convergono nell’assolutezza, il laico che sceglie  diversamente dal religioso e viceversa, si riconosceranno come entrambi attori  morali di pari dignità. Se la laicità dello stato vuole porsi come  alternativa all’ingerenza politica delle istituzioni religiose, quale dovrà  essere il suo contenuto positivo? Non rischia di essere infatti meramente  formale quel concetto di laicità costruito solo come negazione del ruolo  pubblico della religione? Non è, infatti, intendendo così la laicità che si  rischia di creare un vuoto piuttosto che di colmarlo, e in tal modo di  incoraggiare ancora più radicalmente l’impegno politico delle autorità  religiose?    Il presunto  ‘vuoto’ della laicità è esattamente ciò che consente di ottenere l’obiettivo di  bloccare l’ingerenza politica delle istituzioni religiose, distruttiva della  laicità dello stato e della convivenza civile. Ciò accade perché, se bene  osservato con gli strumenti che la filosofia offre, quel presunto ‘vuoto’ si  presenta come una solida pienezza di universalità comprensiva, ossia come quel  positivo , per quanto e forse proprio perchè formale, valore di tutti i valori  che offre anche alle istituzioni religiose, e su un piano di piena eguaglianza,  il rispetto pubblico dei propri valori cognitivi ed etici, nonché religiosi in  senso stretto. Laicità, infatti, non significa indifferenza. La filosofia  conosce bene la differenza tra la natura ‘privativa’ di quest’ultima e la  positività di un universale formale. Chi ha letto la ‘Critica della ragion  pratica’ sa che ‘formale’ e ‘vuoto’ non coincidono affatto, come ripete  stancamente la tradizione hegeliana e neomarxista. Che contributo può dare l’università al  mondo e alla coscienza politica?  L’università  opera (a vantaggio della crescita della coscienza politica) solo in maniera del  tutto indiretta. La coscienza politica  e  civile si forma ovunque, in ogni momento della vita pubblica e persino della  vita privata dei cittadini. Essa in ogni caso non ‘si impara’ all’università.  Quel che soltanto si può apprendere in una università seria è quel rigore della  ricerca e dello studio, quella creatività del ricercare, quella autonomia  intellettuale, e quella probità dello studioso, che contribuiscono a formare la  coscienza civile peculiare dei cittadini che si occupano di ricerca.  Quest’ultima coopera nel tener viva l’opinione pubblica, sempre componendosi  con le coscienze civili di cittadini che operano negli altri ambiti della vita  sociale e che non sono né superiori né inferiori alla coscienza civile dei  ricercatori scientifici. |