| Molti fenomeni nell’attuale  passaggio storico segnalano una difficoltà ed una crisi delle forme e degli  istituti della politica, tanto più evidenti quanto più si associa la politica  all’orizzonte della democrazia, vedendovi anzi la dimensione in cui questa  soltanto, da insieme di procedure e di forme, può farsi ambito dinamico e  conflittuale di mediazione tra bisogni, culture, passioni, valori. Prima di  analizzare quali sono i problemi e le linee di crisi della politica oggi,  proviamo a partire da una domanda più complessiva: che rapporto intercorre tra  politica e democrazia?  La relazione tra la “politica” e la sfera propriamente  democratica è in realtà complessa, anche se i due ambiti vengono spesso  sovrapposti, come se il primo coincidesse interamente con il secondo. In  generale, la democrazia è un’importante variante della storia, non viceversa,  mentre la stessa democrazia ha conosciuto, in rapporto alla storia, tempi e  fasi, che non possono essere sublimate, come talora teoricamente accade, in una  sorta di grande narrazione metastorica della democrazia. La storia ha  conosciuto molti modi di agire politico, di varia qualità, che ancora  attraversano le forme democratiche: dalla terribile e sempre più insensata  permanenza della guerra, a una risorsa di saperi e pratiche che ancora possono  alimentare la saggezza politica, ai parziali modelli forniti da talune teorie o  esperienze esemplari. Devo purtroppo limitarmi a un solo esempio, relativo alla  politica estera: l’incidenza legittimante della democrazia si mostra qui, in  modi alquanto generici, nella elezione preventiva e nella valutazione a fine  mandato, mentre nell’esercizio proprio della funzione governante si è a volte  fortunati persino se s’incontra una vecchia e predemocratica saggezza politica,  un antico sapere circa la buona convivenza. Si potrebbe anzi dire che vi è una  strutturale tensione tra democrazia e politica (in forme istituzionali e  diffuse) e che il problema consiste nella capacità della democrazia di venir  conquistando per sé, fin dove è possibile, un’alta e incisiva qualità politica.  Non si tratta di contrarre il mondo nella democrazia, ma di  riuscire a esercitare le forme di una  possibile e non certo assoluta “sovranità”. Nel caso della “mondiale” guerra  irachena, è evidente che vi sono responsabilità, a discendere, della  complessiva organizzazione delle Nazioni Unite, delle forme  giuridico-istituzionali che autorizzano la guerra, della qualità politica di  governanti, della impermeabilità di società civile mondiale e istituzioni,  della formazione di volontà politica, e così via. Forse, se si stringono  benignamente tutti questi fili la democrazia può compiere passi avanti nella  conquista di qualità politica.Il rapporto di  democrazia e politica può essere visto, indirettamente, anche riguardo alle  complesse strutture della società. E’ un dibattito ormai annoso quello di  determinare il luogo della politica, cioè se essa abbia mai costituito,  costituisca o possa costituire il “vertice” o il “centro” della società. In  ogni caso, se la democrazia ambisce a questo ruolo, deve cominciare o  continuare a conquistarselo. Di fatto, le varie forme della democrazia moderna,  intendo all’incirca quella dell’ultimo secolo e mezzo, hanno trovato dinanzi e  a fianco a sé poteri consistenti, strutturati e costituiti, essi stessi  divenienti e dotati, come oramai sappiamo, di capacità “politica” più o meno  indiretta. L’esempio più agevole da fare riguarda il capitalismo, che, con la  presenza di classi in senso moderno, storicamente precede la democrazia, e che  ingaggia con essa un conflitto per la decisione di ultima istanza e per  un’equilibrata, moderna e inaggirabile convivenza di economico e politico.  Entro una prospettiva sistemica e funzionalista, la democrazia occupa uno  spazio realisticamente davvero troppo modesto, ma ci dice da quanti lati e con  quanta durezza le forme economico-sociali la eccedano o la contrastino. E anche  se la cosa viene vista con gli occhi di Habermas, non meno evidente riesce  la  scarsa permeabilità, nonostante il  diritto, dei sistemi.
 Certo, un grande  “lavorio” democratico si è venuto svolgendo, per modificare, correggere e  compensare la durezza di questo quadro: si pensi solo al welfare state europeo, da rimodellare costantemente, in senso non  burocratico, ma da difendere con ogni energia perché costituisce una delle  poche radure “reali” di estensione della democrazia, indissociabile ormai dalla  sua stessa definizione. Ma al tempo stesso molto rimane da fare perché la  democrazia riesca a illuminare di sé - nella distinzione, nella riarticolazione  e nelle forme di riappropriazione - una zona opaca, indistinta, carica di  vecchio e nuovo, resistente. Ora in questi casi, dove la trasparenza  democratica rischia di costituire un mito, la democrazia deve armarsi di  strategia politica verso altre politiche, di conoscenze e di duttilità, di  mobilitazione di saperi ed energie. Non basta solo una democratica trasmissione  di volontà, rispettosa di tutte le preferenze date, in una circolarità che  ribadisce l’esistente; occorre anzitutto una consapevole volontà dei cittadini,  formata in modo ampio e critico, e quindi la capacità politica dei governanti  di proporre soluzioni più avanzate, riconfigurazione di interessi, immissione  di strumenti innovativi, e molto altro ancora.
 Infine, in tema di  rapporto di politica e democrazia, è pur vero che la democrazia si viene sempre  più costituendo a livello mondiale, nella realtà, nella mentalità e nelle  aspirazioni collettive, come la forma “normale” e universale della politica.  Veramente pochi vorrebbero uscire dai vantaggi della democrazia, molti  vorrebbero accedere a questa sfera, e lo stesso fondamentalismo islamico è  facilmente leggibile anche come estrema resistenza, ancor più che al  capitalismo, a quella modernizzazione democratica che è vista solo nella sua  valenza di avanzante “espropriazione”. Il tema perciò del politico che precede  o eccede la democrazia, o ne fuoriesce per esprimersi in altri ambiti, pur  costituendo cruciale terreno di analisi e di pratiche sociali, può essere  incluso nella generale formula di una politica democratica, o di una politica  della democrazia. C’è qui tra l’altro un motivo dirimente, perché, da ultimo,  tutti gli auspicabili processi di trasformazione sono iscrivibili solo in quel  che è stato detto “l’interminabile lavoro della democrazia”.
 Politica e democrazia, due dimensioni di per sé non  coincidenti quindi, sembravano tuttavia aver trovato un equilibrio virtuoso  nella seconda metà del Novecento a livello degli stati nazionali, dove sono stati garantiti meccanismi, per quanto imperfetti, di inclusione  sociale, di estensione dei diritti di cittadinanza e di partecipazione  politica. Questo equilibrio sembra essersi compromesso però in seguito  all’avanzare di processi sempre più pervasivi di globalizzazione economica.  Come viene a riconfigurarsi il rapporto tra democrazia e politica  nell’orizzonte della globalizzazione?  Le forme della  democrazia sono costrette, volere o no, a fare i conti - ponderati, critici,  non apocalittici né di ottuso ottimismo - con i fenomeni della globalizzazione.  Veramente, si tratta di un termine-concetto ancora controverso, oscillante,  polisemico. Molti studiosi, di varia competenza, ancora discutono: se la  globalizzazione sia una realtà o un mito; un processo irreversibile o reversibile;  se sia un fenomeno della prima modernità, di fine ‘800-primo ‘900 o solo degli  ultimissimi decenni; se si tratti di una globalizzazione solo  economico-capitalistico o pluridimensionale (le globalizzazioni); se abbia  padri-autori o se sia una sorta di processo senza soggetto; se i vantaggi che  ne derivano siano inferiori o superiori ai danni; se preluda a una pacifica  governance mondiale o riservi un futuro fosco di ancor più vistose  diseguaguaglianze e di opprimenti forme di gerarchia economico-politica, e si  potrebbe continuare a lungo (in italiano, un’eccellente “mappa” della  globalizzazione è stata disegnata pochi anni fa da D. Zolo).Per quel che  riguarda il nostro tema, la dibattuta questione riguarda com’è noto il futuro  dello stato nazionale, con il suo corredo di diritto, democrazia, stato  sociale, poteri di inclusione, di controllo e razionalizzazione sociale, ecc.  Lo stato nazionale, in breve, è avviato a un inesorabile tramonto, per  progressiva incapacità di affrontare problemi sempre più globali (a cominciare  dalla guerra e dalle devastazioni ambientali), o ha ancora importanti funzioni  da svolgere? E’ un fatto che strutture politiche, giuridiche, economiche, di  natura sovra o transnazionale, hanno eroso compiti, confini e fonti giuridiche  dello stato nazionale: dall’Unione europea (per noi) all’ONU e alle altre  agenzie di carattere mondiale.
 Uno dei  problemi cruciali è di capire se assistiamo solo a una globalizzazione  economica (o globalismo, per alcuni), che è certo per ora la forma più visibile  e pesante, insieme alla scienza-tecnica, della mondializzazione, o se si diano  e possano darsi altre forme di globalità: politiche e giuridico-istituzionali,  sociali, ecologiche, culturali, civili, e così via. Volontario certo il  globalismo, volontarie anche queste altre forme. Per il nostro discorso, il  problema principale è oggi l’assenza di forme politiche in grado di fissare  condizioni e limiti allo strapotere imperiale del neoliberismo che attuino il  moderno nesso di politica ed economia. La questione riguarda il modo, o meglio  i modi, per far crescere all’orizzonte forme politiche di contenimento e di  rimodulazione del potere economico, nell’ambito di una futura cittadinanza  cosmopolitica e di una società civile mondiale. Vi sono oggi molti studiosi che  vedono a portata di mano, a cominciare da un accrescimento dei poteri (anche  armati) delle Nazioni Unite, una democratizzazione globale e uno stato  cosmopolitico. Credo che il lavoro sarà molto più lungo, accidentato,  contrastato. Con l’occhio ai dati e ai venturi assetti politici mondiali, mi  pare in tutti i casi che ci sia troppa enfasi retorica  nella diagnosi di “fine” dello Stato  nazionale: sarebbe come dire che i vecchi iddii se ne sono andati e quelli nuovi  non sono ancora venuti, né si sa bene come invocarli, o che lo stato resta una  risorsa di chi può permetterselo. Lo stato nazionale per molti versi ha fatto  il suo tempo (se non altro, a parer mio, perché basato sull’inclusione  escludente), ma costituisce ancora un punto di forza per ogni trasformazione  futura. Non si risponde così alla difficoltà della globalizzazione con  rinazionalizzazioni, ma piuttosto cercando di orientare e muovere le politiche  nazionali in direzione di un mondo nuovo, più unito e più giusto.
 Circa il  problema di ciò che deve essere tutelato, infine, un solo esempio. E’ vero che  uno degli obiettivi del globalismo economico sembra consistere nello  smantellamento dello stato sociale europeo, con il seguito di  deregolamentazione dei diritti del lavoro, ecc. Credo che una globalizzazione a  questo prezzo debba essere in tutti i modi contrastata. Gli europei, che già  sono pervenuti a una  globalizzazione  regionale, sia pur timida, devono piuttosto far sentire la forza delle loro  buone tradizioni e del necessario impasto di politica e civiltà.
 Esiste quindi un patrimonio di riferimenti culturali e di  esperienze storiche del passato che deve essere tutelato. Se si volesse fare  tuttavia una mappatura delle principali difficoltà e delle partite ancora  aperte nelle democrazie su scala nazionale, da dove bisognerebbe partire?  E’ in corso  oggi, per dirla al modo di Beck, una lotta per la definizione della democrazia, per ripensarla, lontani ormai sia da  Rousseau che da Schumpeter. La democrazia per la verità è sempre in qualche  modo ridefinita, come tutti i processi della volontà, è plebiscito di ogni  giorno, secondo la formula un po’ enfatica di Renan; ma vi sono oggi imponenti  e intuibili ragioni, a cominciare dal mondo globale, o dalle crisi e dai  successi delle precedenti forme democratiche, per ridefinire il quadro, i  problemi e le possibilità della democrazia, più o meno degli ultimi  cinquant’anni. Sarebbe impossibile, naturalmente, tentare qui anche solo un  elenco della attuali difficoltà delle democrazie. Mi limiterò così solo a  toccare un punto, per altro delicato, di affanno e depressione afasica, e cioè  il rapporto di cittadini e governanti.Da molti indicatori, è rilevabile una caduta  delle forme tradizionali di partecipazione   democratica,  al di là delle  tornate elettorali, ancora a volte vivaci, o dei fuochi che si accendono e  finiscono presto in cenere. Già un piccolo, semplice ed esemplare libro, come  la Postdemocrazia di C. Crouch,  insegna da quanti lati, e soprattutto da parte dei vertici politici, la  comunicazione democratica dal basso verso l’alto appaia frenata o bloccata. Vi  sono numerosi fattori che determinano questa situazione, globali e locali. Qui  è utile solo ricordare lo strutturale indebolimento in Europa delle grandi  organizzazioni di massa, partitiche e sindacali, in quanto tramite, connettivo  e selettivo, di partecipazione, strumento di educazione, apprendimento e  capacità di domande. La crisi della tradizionale forma-partito ha un impatto di  rilevante portata circa l’attuale assetto delle democrazie. Connesso anche a  ciò, si verifica la perdita presso che di ogni significato del concetto di  “rappresentanza”, e il convenire verso il centro, verso gli elettori mediani,  dell’asse politico, che sembra smarrire il carattere di legale conflittualità  iscritto nella democrazia: le stesse tradizionali partizioni di destra e  sinistra sembrano avviate a diventare desuete, persino in taluni ambiti della  sinistra (unità del fare, opposta solo all’antipolitica), e le forme plurali di  democrazia sembrano stringersi intorno a un unico modello, basato sulla forma  di partito-non partito, o partito essenzialmente in funzione elettorale. E  ancora molto vi sarebbe da dire intorno alle ristrette aree della comunicazione  politica mediatizzata, al leaderismo dell’immagine, all’ineguaglianza politica,  alla connessione di politica e risorse finanziarie, e così continuando. Come si  vede, una strada molto in salita per la partecipazione, anche se sono  civilmente da incoraggiare tutti i tentativi dei partiti di rinnovare le forme  comunicativo-partecipative (telematiche, settoriali, ecc.).
 Resta tuttavia  un dubbio maggiore: anche se si riducessero gli ostacoli e i limiti che oggi  gravano su questo tradizionale ed essenziale connotato della democrazia, anche  se la partecipazione riuscisse a colmare i disturbi e le interferenze,  guadagnando sbocchi positivi, non è meno vero che essa è “costosa” in termini  esistenziali, deludente perché non mette capo a esiti decisionali, o perché,  diremmo, chiede e suggerisce, in modi spesso indeterminati, non “costruisce”.  Questo elemento va certo valutato in rapporto al modo di essere delle donne e  degli uomini che agiscono un determinato tempo della democrazia. Ma allora si  tratta di capire come si possa, nel mondo attuale, accrescere e differenziare  le forme della “partecipazione”. Il mio suggerimento è di includere, tra le  tante novità che spesso sgradevolmente ci abitano, anche alcuni effetti  positivi della democrazia, che ne determinano una sorta di crisi da successo.  Voglio dire, anche attraverso la democrazia strati consistenti di cittadini (e  a tema restano sempre le perequazioni inclusive) sono divenuti, mediamente, più  colti, ricchi, adulti e capaci di articolati stili di vita. La politica  democratica è rimasta indietro: i suoi riti, sempre più privi di mito, appaiono  di norma troppo semplici e datati, anche se spettacolarizzati, più o meno  prevedibili e previamente introiettati.   Il corrispettivo di ciò è la tendenza dei partiti a rifuggire da una  sempre maggior complessa società civile (che non è solo facciata), facendosi  sempre più “stato”; per certi aspetti, la politica stessa sembra avviata a  diventare peculiare “sistema” di governance,  con i cittadini prima come tassa d’ingresso, poi come “ambiente”.
 In gioco vi è  dunque la natura, la qualità, le opportunità, la mentalità e le forme di vita  degli uomini e delle donne che oggi costituiscono gli attori orizzontali della  democrazia. E il problema è come far rifluire questa maturità individualizzata,  capace di costruire ricche e molteplici forme di vita, in un ambito sociale e  anche politico. Ora, vi sono già oggi, e in numero tale da riuscire  sorprendente e spesso misconosciuto, forme varie e fattive di  individualità-sociale – movimenti, iniziative civiche, libero associazionismo  civile, valorizzazione di forme di vita, apprendimento del microfare sociale  per scopi definiti, volontariato, ecc. – che meritano di essere conosciute,  valorizzate, protette giuridicamente e politicamente. Si potrebbe partire di  qui, per far crescere un’importante riserva di ethos democratico, al tempo stesso cooperativo e conflittuale. Ma  senza nessuna retorica di improbabili rovesciamenti. Il cammino è difficile e  ognuno deve fare la sua parte, comprese le forme proprie e tradizionali della  democrazia, per garantire un quadro di eguale e solidale eguaglianza, dove  ognuno sia in grado di sviluppare e realizzare le proprie capacità.
 Nelle società attuali -  ridefinite post-secolari in riferimento al nuovo protagonismo pubblico delle  religioni - il dibattito culturale sembra spesso arenarsi nell’alternativa tra  un nuovo integrismo religioso, tanto islamico quanto cattolico, ed un concetto  di laicità che fa difficoltà ad offrire orizzonti valoriali propri, rischiando  di ridursi ad una mera difesa delle procedure dello Stato di diritto  dall’ingerenza delle istituzioni religiose. Da dove ripartire per ricostituire  un concetto positivo di laicità, e un ambito reale di incontro e dialogo tra  atei e credenti? La laicità e i problemi che vi si connettono sono già  diventati, e ancor più diventeranno, uno spinoso problema della convivenza  democratica, civile e politica. Appena venti o trent’anni fa, la questione  poteva sembrare non già risolta, ma impostata e piuttosto assestata su linee di  discussioni intellettuali che, incontrandosi anche con un diffuso senso comune,  sembravano promettere, in tema di laicità, più ampia pacificazione. Penso, per  un solo esempio, alla diagnosi ottimistica stilata da uno studioso di  orientamento cattolico, E. Poulat, nel 1987: fine essenziale del dibattito di  cristianesimo e laicità, moderno riconoscimento dell’impossibilità di pervenire  a una società unidimensionale di tutti credenti o di tutti atei, relazioni  istituzionali stabilite su base laica (Liberté et laicité. La guerre des deux France et le principe de la modernité ).Ritengo che dovrebbe essere studiato quando e come  tale quadro sia venuto mutando, o perché vecchie questioni sono tornate a  riproporsi con crudezza. Tra i motivi o gli esiti, comunque, mi sembra vi  siano, detto un po’ alla rinfusa, questi: difficoltà nella definizione stessa  del termine o lotta per impossessarsene (quasi nessuno più vuol dirsi  non-laico); tra i cattolici, progressiva revoca del Concilio Vaticano II;  effetti della globalizzazione e risposte in termini di chiusura tradizionalistica;  accelerazione delle migrazioni e del pluralismo religioso; emergenza del  fondamentalismo armato a sfondo islamico e di repliche dell’integrismo  cristiano; ripensamento dello spazio pubblico delle religioni; povertà  dileguante della consapevolezza dei “laici” in sede istituzionale, democratica  e culturale, comprovata dalla   percezione da parte delle chiese di poter occupare uno spazio vuoto di  senso, in ambito morale e politico. I punti su cui bisognerebbe lavorare,  confrontarsi e reagire sono molti. Schematicamente, entro una rinnovata  definizione della laicità, mi pare convenga disaggregare il problema in questi  ambiti: identità e integrità personale; relazioni e convivenza plurale di  credenti/diversamente credenti/atei; rapporto con le istituzioni democratiche;  dialogo interreligioso.
 Circa la definizione della laicità, comprensiva di  molti nuovi problemi, si richiama qui solo l’esclusione di un atteggiamento  sacrale-integrista e una laicità come potenziale patrimonio comune di tutti,  nel verso di  un’accresciuta libertà  delle coscienze nella loro capacità cognitiva e critica, interpretativa e  comunicativa. C’è oggi un rilevante consenso intorno ai termini di una  connotazione “universale” della laicità, che concerna tutti e non sia una proprietà  esclusiva di alcuno. Il problema è certo difficile, da argomentare, ma si pensi  solo alla tragedia di una società composta di fedi contrapposte e militanti,  dell’assolutizzazione delle credenze, o alla prospettiva di una società  monocorde, sgradevolmente unificatrice, dove forse nessuno vorrebbe vivere.  Questo richiama naturalmente la questione dell’integrità della persona e delle  sue convinzioni (un punto su cui la generosa proposta di Rawls sul consenso per  intersezione non sembra purtroppo avere molta corda). La tesi, che a mio parere  sarebbe da svolgere, sostiene che la laicità sia in realtà un affinamento della  moderna coscienza di ognuno, una sorta di terapia per la buona cura del sé,  purificata da interni dissidi, e persino un modo più ricco di vivere la purezza  delle fedi religiose Non luogo di neutralizzazione indifferente e passivo, la  laicità dovrebbe essere pensata come riflessiva capacità di liberazione e  di  mobilitazione di energie.
 Nell’ambito intersoggettivo e sociale, la comune  laicità sembra aprire il campo alla bellezza delle diversità e della pluralità:  si crede o non si crede in molti modi, con molte risposte di senso, molti  sguardi su di sé e sul mondo, entro la specificità delle singole biografie;  semmai, il tempo che viviamo dovrebbe spingere a una più aperta e comunicativa  espressione dei propri vissuti, senza coprirsi con minimali prospettive  ancestrali, naturalistiche ed etico-sacrali. In sede pubblica, l’agire  democratico è costitutivamente intrecciato alla laicità, mentre non si vede in  quale altro modo possa mantenersi una pacifica convivenza, rispettosa di tutte  le opinioni e le fedi. La protezione, di necessità neutrale, delle istituzioni  è un bene irrinunciabile, che tocca veramente tutti. Il gran parlare che oggi  si fa del trapasso da una religione vissuta nel privato a una religione aperta  allo spazio pubblico, mi riesce francamente incomprensibile. Nella democrazia  matura, non mi pare affatto che vi siano oppressioni e censure circa il libero  concorrere delle chiese, entro la società civile, alla espressione di  indirizzi, esigenze e domande. Il punto è dove si vuol arrivare, e quale sia il  tipo di società che per questa via si desidera istaurare.
 Circa il dialogo interreligioso, infine, mi limito  solo a ricordare l’imponente lavoro di ricerca venticinquennale che H. Küng ha  svolto, con rispetto e senso critico, sulle religioni abramitiche, fino  all’ultimo libro sull’Islam, all’insegna del motto: “non c’è pace tra le  nazioni senza pace tra le religioni”. Vi si trovano importanti spunti sui modi  di pensare e vivere una religiosità laica e “illuminata”. In particolare, si  auspica, ma col conforto già di molte realtà in atto, una “interpretazione  responsabile e pluralistica del Corano”, perché la rivelazione, fuori dalla  sacralità assoluta e dalle formule “fisse e letterali”, è parola di Dio,  manifestata al Profeta, agita dalle parole degli uomini; la religione non è una  “disputa legale” ma “eredità spirituale”, che chiama in causa  un’interpretazione dell’intero testo sacro “secondo categoriespirituali e intellettuali”. La speranzaprincipale di pacificazione sembra consistere così non tanto  in modelli estranei di modernizzazione e secolarizzazione ma nell’assecondare,  con il reciproco ascolto, le isole consapevoli di più affinata religiosità  islamica.
 |