| In modalità diverse,  nell’attuale panorama nazionale e internazionale si manifesta una diffusa  insofferenza di fronte alle strutture tradizionali della politica. Questo fenomeno  è l’espressione di un generico sentimento antipolitico o del fatto che qualcosa  non funziona più nelle forme della politica, così come sono state pensate fino  adesso? Penso che ci siano entrambi  questi elementi. In questi fenomeni c’è sicuramente un elemento contingente: il  rifiuto cioè di alcuni modelli di comportamento del ceto politico, se ci  riferiamo all’Italia direi anche di alcuni caratteri istituzionali della  politica. C’è però qualche cosa di più profondo, che arriva alle forme stesse,  alle categorie fondanti della politica moderna che dimostrano di essere sempre  più incapaci di dar conto delle dinamiche reali e attuali. Si pensi per esempio  alla difficoltà di affrontare oggi la questione della globalizzazione con le  vecchie categorie di rappresentanza, di stato sovrano e di diritti individuali.  E’ anche questa discrasia, questo scollamento tra concetti, istituzioni e  prassi, che determina le difficoltà a cui lei faceva riferimento. Gran parte del Suo lavoro  filosofico è stato finalizzato ad operare una revisione critica della  concettualità politica moderna e del modo in cui questa concettualità continua  ad orientare l’auto-rappresentazione che la politica ha di sé. Questi fenomeni  storici richiamano il pensiero filosofico ad un compito specifico, come quello  di farsi carico di un ruolo di riflessività, di orientamento, di critica?  La domanda in sostanza è quella  del rapporto tra filosofia e politica. E’ innegabile come da un lato tra  filosofia e politica ci sia un rapporto stretto: la filosofia, come si sa,  nasce nella polis e ha da sempre intessuto un rapporto fondamentale con  la politica. La filosofia traduce sempre elementi e dinamiche reali, interpreta  la realtà, prefigura scenari possibili. Questo rapporto forte con la politica  tuttavia non va inteso come un rapporto di identificazione con essa né tanto  meno di subalternità. Una filosofia che ambisca ad avere senso, forza e dignità  deve sempre assumere rispetto ai processi reali una chiave sì interpretativa,  ma anche critica: non può cioè assumere il dato in quanto tale, deve riuscire a  decostruire sia le dinamiche reali che ha di fronte sia i concetti che  innervano queste dinamiche. Quindi torniamo alla questione precedente, nel  senso che oggi il compito della filosofia è decostruire le categorie  filosofico-politiche moderne e proporne delle altre.  Lei sta dicendo quindi che la  filosofia non può, a meno di non perdere ciò che la caratterizza in quanto  filosofia, tradursi immediatamente in prassi o richiamare un impegno politico  diretto... Io penso di no, naturalmente non  tutti la pensano come me. Sta di fatto che quando nella storia recente o antica  la filosofia ha voluto immediatamente essere prassi – penso al caso mitico di  Platone che voleva come filosofo governare alcuni processi politici, oppure per  fare un esempio molto più recente, l’impegno politico di Heidegger al tempo del  nazismo – questo corto circuito è sempre esploso con effetti disastrosi e per  la politica e per la filosofia. Naturalmente questo non significa consegnare la  filosofia ad una dimensione necessariamente a-politica o anti-politica. Per  questa ragione io ho usato nel passato l’espressione di impolitico per definire questa modalità critico-decostruttiva della  filosofia rispetto a tutti gli assetti di potere anche concettuali, una  modalità per esempio praticata da Nietzsche, anche se a volte in forme  discutibili. Quello che conta per il lavoro proprio della filosofia è la  capacità di decentrare e di capovolgere i nessi evidenti, di cercare passaggi  inediti nel pensiero e nella realtà. Provando ad entrare più nel  merito dei fenomeni contemporanei al centro della discussione pubblica, con  riferimento alla situazione italiana, colpisce in questo passaggio storico il  nuovo protagonismo pubblico della religione, anche nella sua veste  concretamente istituzionale. L’autorità religiosa interviene sempre più spesso  negli affari politici dello Stato, e più in generale si richiama ad una  funzione orientativa dell’agire politico, che si traduce direttamente in  moniti, divieti, proposte. Anche in questo caso ci si può chiedere se la  filosofia, per la forma di razionalità che dovrebbe custodire, è chiamata a  giocare un ruolo nella sfera pubblica, per esempio quello di sostenere un  approccio laico alle questioni contemporanee?  Io penso che l’intervento della  Chiesa dal suo punto di vista, dal punto di vista cattolico cioè, è legittimo e  inevitabile. Il cattolicesimo ha da sempre preteso di influire nella vita degli  uomini, sarebbe impensabile per chi ci crede che la posizione della Chiesa  rimanesse indifferente rispetto a ciò che accade tra gli uomini. Questo non lo  si può neanche chiedere. D’altra parte lo stato deve avere la forza e la  consapevolezza della propria autonomia, e deve sviluppare il proprio percorso  decidendo autonomamente rispetto alle sue pratiche pubbliche. Tra questi due  poli, quale deve essere il ruolo della filosofia? Francamente non penso che il  ruolo della filosofia debba essere quello di fiancheggiare la Chiesa o lo  Stato. La filosofia sta in un’altra sfera, che non la situa immediatamente in  una posizione precisa o di tipo teologica o di tipo laicista. La filosofia deve  elaborare concetti, come dice il filosofo Gilles Deleuze, il compito della  filosofia è quello di creare concetti, non di difendere istituzioni esistenti.  Questa modalità filosofica di  approccio alle questioni pubbliche si scontra con un dato che oggi, forse, è anche  alla radice della nuova insorgenza della religione nella sfera pubblica: un  approccio laico alle questioni, non sostenuto da un forte orizzonte di  riferimenti valoriali, rischia di tradursi in formalismo o quanto meno di non  reggere il passo di posizioni forti, che non a caso mostrano una grande  capacità di presa e mobilitazione... E’ il problema della verità io  credo. La filosofia rimane esterna a come il discorso teologico, partendo da  una verità rivelata, cerca di influenzare il mondo laico. Tuttavia deve poi  scegliere tra due atteggiamenti: o partire dal presupposto dell’inesistenza di  ogni tipo di verità, sposando conseguentemente una logica neutralista e  relativista, secondo cui ogni tipo di discorso è legittimo e non esiste la  possibilità di posporre o preporre un discorso ad un altro, oppure fare un  discorso più complesso. La filosofia può assumere infatti anche l’idea che il  rapporto con la verità è ancora vitale ma che la verità è in se stessa  contraddittoria, cioè che essa non è esprimibile in dogmi, oppure in  proposizioni assolute, non è esprimibile quindi né in chiave teologica né in  chiave immediatamente scientifica, perché è qualche cosa di complesso che ha  dentro di sé anime a volte anche in conflitto tra loro. Se la filosofia adotta  questa concezione della verità come qualche cosa che in sé è eternamente  contraddittorio, in qualche modo riesce a sfuggire alla dogmatica teologica,  senza cadere preda del più assoluto relativismo.  Che contributo può dare  l’università al mondo e alla conoscenza della politica attuale? Per com’è costruita l’università  oggi forse nessuno! Sto esagerando ovviamente, ma non tanto, nel senso che la  logica universitaria accademica, essendo una logica di per sé  iperspecialistica, tende ad impedire una riflessione critica generale,  ostacolando la capacità di guardare alla realtà come un complesso di cose.  Naturalmente il mio auspicio è che l’università non solamente cominci a  risolvere i suoi problemi interni istituzionali, ma si avvicini al sapere con  un’anima più critica e una capacità di combinare insieme linguaggi che  attualmente, nell’organizzazione accademica, sono separati.   |