Molti fenomeni nell’attuale passaggio storico segnalano una difficoltà ed una crisi delle forme e degli istituti della politica, almeno attenendosi a quell’immagine di essa che si è andata consolidando nella modernità europea. Cosa è che non funziona più nella democrazia?
Oggi per democrazia si possono intendere cose molto diverse, come ci hanno insegnato Max Weber e Joseph Schumpeter. Si può intendere la democrazia partecipativa, secondo il paradigma smagliante dell’agorà ateniese. Si può intendere una democrazia rappresentativa nella quale il Parlamento esegua la volontà del popolo e dal popolo sia efficacemente controllato. Oppure, alla luce del realismo politico schumpeteriano, si può ritenere che le forme classiche della democrazia siano ormai tramontate nel quadro di società differenziate e complesse, come sono le società industriali avanzate. In queste società la gestione del potere politico deve essere affidato ad élites di specialisti, mentre al pubblico generico dei cittadini, privi di competenze specifiche, si può al più riservare il compito di scegliere, attraverso libere consultazioni elettorali, l’élite a cui affidare il potere di comando e alla quale sottomettersi. Nel corso della seconda metà del Novecento questo modello di democrazia – la cosiddetta ‘dottrina pluralista’ della democrazia – è stato consacrato dall’autorità di filosofi e scienziati della politica come, fra gli altri, Raymond Aron, Norberto Bobbio, Robert Dahl, Ralf Dahrendorf. Ma negli ultimi decenni del secolo scorso, nel quadro dei processi di integrazione e di informatizzazione globale, anche la dottrina pluralista della democrazia, nonostante il suo riduzionismo estremo, si è rivelata irrealistica. Dalla società dell’industria e del lavoro l’Occidente è passato alla società postindustriale, dominata dalla rivoluzione tecnologico-informatica e dallo strapotere delle grandi forze economiche. Queste forze sfruttano le dimensioni globali dei mercati, proiettano le disuguaglianze sociali su scala planetaria e rendono sempre più precaria la condizione dei lavoratori dipendenti. La sovranità politica e giuridica degli Stati nazionali viene sempre più erosa, vengono smantellate le strutture del Welfare state e la democrazia parlamentare cede il passo alla ‘videocrazia’. I partiti politici di massa scompaiono perché le loro direzioni centrali non ricorrono più al proselitismo degli iscritti e dei militanti. Strumenti molto più efficaci ed economici sono i canali delle televisioni pubbliche e private. In questo senso i nuovi soggetti politici non sono più dei ‘partiti’: sono delle ristrettissime élites di imprenditori elettorali che, in concorrenza pubblicitaria fra di loro, si rivolgono alle masse dei cittadini-consumatori esibendo, secondo precise strategie di marketing televisivo, i propri prodotti simbolici. Come Norberto Bobbio ha osservato, si è verificata un’inversione del rapporto fra controllori e controllati: sono gli eletti a controllare gli elettori e non viceversa. Siamo dunque in un regime che non è retorico chiamare di video-oligarchia postdemocratica.
Nel suo lavoro di ricerca, che è anche un tentativo di demistificazione critica di categorie e lemmi apparentemente neutrali e consolidati, lei ha messo sotto accusa il progetto di cosmopolitismo o “globalismo” giuridico, che alcuni intellettuali indicano come l’unica via oggi, attraverso l’implementazione dei diritti umani su scala globale, per tutelare le diversità e pruomovere la giustizia. Quali sono le sue critiche al progetto universalistico e quali secondo lei le alternative ad esso in termini filosofici e pratici?
Sostengo da molto tempo che la teoria e la pratica dei diritti soggettivi – o “diritti umani” – è un patrimonio prezioso che la tradizione liberal-democratica ci ha consegnato. Ed è un patrimonio tanto più prezioso perché la cultura europea è stata la sola a inventare l’dea di “diritto soggettivo” nel quadro di una filosofia e antropologia generale che possiamo chiamare “individualismo politico”. Nessun’altra civiltà del pianeta ha prodotto qualcosa di simile, sia sul piano teorico, sia sul terreno pratico. Lo “Stato di diritto”, che è l’espressione tipica della dottrina dei diritti soggettivi, è un apparato istituzionale che si è affermato prima in Gran Bretagna (rule of law) e poi nell’Europa continentale, a partire dall’esperienza tedesca del Rechtsstaat, nella seconda metà dell’Ottocento. Il tentativo di fare del diritto positivo uno strumento di controllo del potere politico e di riduzione dell’arbitrio, pur con tutti i suoi limiti pratici e la sua crisi attuale, è un’esperienza senza uguali nel mondo e che a mio parere deve essere energicamente tutelata. È la garanzia di alcune libertà fondamentali delle persone, della loro autonomia nei confronti dello Stato, della responsabilità del potere politico nei confronti dei cittadini e, nello sviluppo welfarista dello Stato liberal-democratico, di alcune essenziali aspettative di sicurezza sociale da parte dei cittadini: la tutela della salute, l’istruzione, la previdenza e l’assistenza sociale, il lavoro. Detto questo, sostengo che la teoria e la pratica dei diritti soggettivi e dello Stato di diritto è priva di qualsiasi fondamento “universale”. È una vicenda sviluppatasi in una particolare fase storica, in una parte dell’Europa, in seguito a grandi tensioni e conflitti politici e sociali. (I diritti sono strettamente legati al conflitto e alla lotta politica). In particolare il mondo islamico, le culture religiose indiane e la millenaria tradizione cinese-confuciana sono profondamente estranee alla dottrina occidentale dei diritti soggettivi e dello Stato di diritto. Pretendere che il mondo intero riconosca l’universalità dei diritti soggettivi e delle forme istituzionali dello Stato di diritto – Costituzione rigida, Corte costituzionale, divisione dei poteri, principio di legalità, etc. -- è un vero e proprio imperialismo culturale. Se poi questi principi e questi valori sono usati per legittimare forme aggressive di espansione della cultura e degli interessi occidentali, siamo in presenza di un imperialismo tout court. Le guerre “umanitarie” e le guerre “preventive” scatenate dall’Occidente a partire dai primi anni novanta del secolo scorso, sotto l’egemonia degli Stati Uniti d’America, sono una espressione paradigmatica di questo imperialismo culturale, politico e militare.
Gli equilibri creatisi su scala nazionale nel Novecento hanno saputo garantire meccanismi, per quanto imperfetti, di inclusione sociale, di estensione dei diritti di cittadinanza, e di partecipazione politica. Come fare a riorientare queste istanze su scale che travalicano lo spazio nazionale, ad esempio nell’ambito dell’Unione europea?
Un tema da prendere in considerazione a questo proposito è il cosiddetto “deficit democratico” dell’Europa e il tentativo di colmarlo con documenti costituzionali e con formali dichiarazoni di Bills of Rights. La carta dei diritti fondamentali dei cittadini europei approvata a Nizza nel dicembre 2000 intendeva colmare almeno in parte questo deficit. Il riconoscimento di un ampio ventaglio di diritti soggettivi, si sosteneva, avrebbe posto in primo piano i ‘cittadini europei’ e avrebbe ridotto quindi lo iato esistente fra la ‘società civile’ europea, da una parte, e, dall’altra, un processo di integrazione che sinora è stato dominato dai ‘poteri assoluti’ delle tecnocrazie economico-finanziarie e delle burocrazie amministrative. Secondo questa interpretazione, il riconoscimento dei diritti fondamentali avrebbe offerto una nuova base di legittimità alle istituzioni europee, impegnandole ad un trattamento eguale ed omogeneo delle aspettative di tutti cittadini, senza discriminazioni etniche, nazionali o di altro tipo. Oltre a ciò, la Carta poteva essere intesa come il nucleo dell’identità politica degli europei, l’emblema distintivo della loro civiltà. Dopo Nizza si sarebbe potuto parlare di una ‘cittadinanza europea’ fondata sui diritti e non più soltanto sulla moneta unica (o sulla Bce). Per quanto riguardava, più in generale, il profilo istituzionale, si era sostenuto che l’approvazione della Carta dei diritti fondamentali rappresentava un passo decisivo -- una tappa irreversibile -- verso la Costituzione dell’Europa unita. La Costituzione avrebbe offerto ai cittadini europei la possibilità di sentirsi rappresentati e governati da istituzioni unitarie, semplificate e trasparenti -- modellate secondo lo schema dello Stato di diritto --, tali da assicurare a tutti i cittadini dell’Europa uno standard uniforme di civiltà, di democrazia e di protezione dei diritti individuali". Come tutti sanno le cose sono andate in modo molto diverso, confermando le riserve classicamente espresse da autori come, fra gli altri, Dieter Grimm e Joseph Weiler. Queste riserve per un verso sottolineano l’assenza di una ‘società civile’ europea, e per un altro esprimono dubbi circa la possibilità che la nascita di una ‘società civile’ venga stimolata da più robuste protesi istituzionali e da un surplus di normazione costituzionale. Ciò che rende un popolo consapevole della sua identità sono essenzialmente i mezzi di comunicazione che alimentano un’opinione pubblica unitaria e danno vita, a determinate condizioni, ad una coscienza e lealtà democratica. In Europa mancano tutti i presupposti perché un processo di questo tipo possa essere avviato: manca una lingua comune, mancano editori, emittenti radiofoniche e televisive europee, mancano movimenti, associazioni civili, sindacati, partiti politici su scala europea. Si può inoltre sostenere che una elencazione formale dei diritti è sostanzialmente un alibi per non fare ciò che invece sarebbe veramente necessario fare: una politica europea dei diritti fondamentali. Anziché moltiplicare gli elenchi dei diritti o aggiungere nuovi diritti agli elenchi già esistenti, l’Unione avrebbe bisogno di agenzie, di programmi d’azione e di finanziamenti in grado di renderli effettivi. Sullo sfondo resta aperto il grande problema della sovranità dell’Europa unita, della sua autonomia nei confronti degli Stati Uniti. Ed è probabile che questa sia una delle condizioni principali perché i sentimenti di appartenenza e di solidarietà riprendano vigore in Europa.
Colpisce in questo passaggio storico il nuovo protagonismo pubblico delle religioni. Da dove partire per rielaborare un concetto di modernità e di laicità all’altezza di una società multiculturale, ma che non neghi la libertà religiosa?
La modernizzazione è l'imperativo categorico del nostro tempo, corollario normativo dei processi di globalizzazione. Modernizzazione e globalizzazione tendono a rimuovere le tradizioni o, per lo meno, a ignorarle, abbandonandole al loro destino particolaristico, come pura ridondanza folcloristica. Ma le tradizioni non arrivano sino a noi dal passato per una sorta di inerzia culturale: sono una invenzione del presente che richiede una costante rielaborazione culturale. Si può dire che i processi identitari collettivi si alimentano proprio di questa vivente rielaborazione della tradizione, di questa permanente interazione fra tradizione e modernità. La deriva secolarizzante della modernità non deve significare il rifiuto delle radici culturali dei popoli, radici culturali che sono in larga parte religiose. I legami di appartenenza civile e politica sono fortemente influenzati dalle iconografie religiose, così ricche di suggestioni antropologiche, di motivazioni e di sostegni normativi dell'esistenza individuale. L'abbandono dell'etnocentrismo religioso -- abbandono necessario per superare il dispotismo totalitario del pensiero dogmatico -- richiede che ciascuno per la sua parte si sforzi di cogliere il lato oscuro e aggressivo della propria cultura, che metta a nudo le pericolose illusioni del proprio nobile universalismo. Il dialogo interculturale richiede una critica degli aspetti dogmatici delle antiche religioni, della loro pretesa di regolare in modo autoritario ogni aspetto della vita. Ma se ciò esige da parte di ciascun credente un atteggiamento critico e aperto al dialogo con le altre fedi, non impone la negazione delle radici religiose di ciascun popolo. E sul piano dell'organizzazione pubblica la modernità non può non significare un certo grado di differenziazione fra i sottosistemi primari del sistema sociale, a cominciare dalla differenziazione fra il sistema religioso e il sistema politico. Questo vale anzitutto per i paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo, dove la Chiesa cattolica romana -- una organizzazione gerarchica e autoritaria, che al suo interno discrimina pesantemente il genere femminile -- tende a imporre i suoi dogmi anche con mezzi politici e giuridici: dall'etica sessuale alla concezione della famiglia, alla scuola, alla bioetica. Questo vale anche per lo Stato di Israele, che è uno Stato sionista e confessionale. E vale anche per le teologie islamiche che influenzano più o meno intensamente le culture arabe. Rifuggendo dagli universalismi etici e dai dogmatismi religiosi la modernità dovrebbe ispirarsi a un 'pluriversalismo' etico-religioso tollerante e inclusivo. L'universalismo divide gli uomini perché nega la diversità e la complessità nel momento stesso in cui aspira al consenso universale. Il monismo, filosofico o teistico, tende per sua natura al fondamentalismo: nel cuore del suo cuore si annidano l'intolleranza, il razzismo, il colonialismo culturale, la sindrome missionaria. Ma -- ecco un punto molto importante -- non ci sono soltanto gli arcaici fondamentalismi religiosi con cui fare i conti. C'è anche il fondamentalismo della modernità: è il fondamentalismo di quelle élites politiche e culturali che al di fuori del cerchio della modernità occidentale vedono solo barbarie, oscurantismi, oppressioni e repressioni. C'è nel mondo occidentale un fondamentalismo acquisitivo e consumista, dominato dalla competizione, dall'efficienza produttiva e dalla velocità. È un mondo senza misura e senza bellezza nel quale lo sviluppo dell'economia e della tecnica non incontra alcuna resistenza, perché l'unico elemento sacro è il dominio dell'uomo sulla natura. E la natura -- l'ambiente della nostra vita quotidiana -- ne viene orrendamente devastato e avvelenato. E c'è persino -- è uno degli aspetti più drammatici della globalizzazione -- un fondamentalismo dei diritti dell'uomo e della democrazia. In nome di questo universalismo umanitario l'Occidente ha scatenato guerre di aggressione nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq.
Di fronte alle nuove sfide e problemi cui ci mette di fronte il mondo globale la cultura e, più in particolare, la riflessione filosofica, sono chiamate secondo lei a giocare un ruolo di orientamento e di critica?
La mia opinione è che nel contesto dei processi di globalizzazione il primo compito della cultura e della riflessione filosofica occidentale sia quello di avviare un dialogo paritetico con le altre grandi civiltà e culture del pianeta, in modo tutto particolare con la cultura arabo-islamica e con quella cinese-confuciana. In Occidente c’è un diffuso senso di superiorità nei confronti delle culture “diverse”, in particolare quelle autoctone, africane ed americane, sin dai tempi della scoperta del “nuovo mondo” e dalla circumnavigazione dell’Africa. E c’è un atteggiamento di sufficienza e talora di sfida soprattutto nei confronti del mondo islamico e delle culture dell’Asia orientale. Importantissimo su questo tema è il libro Orientalism, di Edward Said, e altrettanto importanti sono le ricerche dei Subaltern Studies, che hanno mostrato la dipendenza delle culture indiane dalle categorie filosofiche ed epistemologiche della potenza occupante, l’Inghilterra imperiale. Famosa è la massima, ripresa da Carl Schmitt, Caesar dominus et supra grammaticam. Nei confronti del mondo arabo-islamico c’è sempre stata in Europa, grazie soprattutto all’influenza della Chiesa cattolica, una forte avversione, non solo religiosa. I secolari conflitti che hanno insanguinato il Mediterraneo – dalle Crociate alla riconquista spagnola che ha cancellato la straordinaria e tollerante cultura araba dell’Andalusia – oggi hanno lasciato il posto ad una sorta di muro di ignoranza e di silenzio. In Europa e negli Stati Uniti letteralmente si ignorano la civiltà, la cultura, i valori e i principi del mondo islamico. I soli importanti rapporti fra Occidente e mondo islamico sono determinati dalla questione del controllo delle fonti energetiche – in particolare del petrolio e dei gas combustibili – che si concentrano nel Golfo Persico, nell’area caspica e transcaspica. Il fenomeno del terrorismo nasce sia da questo muro di ostile silenzio culturale, sia dalla aggressione e occupazione territoriale dei paesi arabo-islamici da parte delle armate occidentali, soprattutto statunitensi. In un libro recente – Dying to Win -- Robert Pape ha mostrato che il terrorismo di radice islamica, in particolare quello suicida, non è il frutto del fanatismo religioso: è in larga maggioranza la risposta razionale e strategica di un popolo aggredito che cerca di liberarsi dalla occupazione militare e dalla pressione cultuale di una potenza straniera.
Come si sviluppano gli studi sui diritti umani nelle culture orientali? C’è spazio per il pensiero occidentale?
Nel mondo islamico oggi c’è una crescente attenzione alla cultura politica occidentale, come prova l’ampia letteratura, soprattutto euro-islamica: penso alle opere di Fatema Mernissi, Muhammad al-Jabiri, Abdullah Ahmad An-Na’im, Soheib Bencheikh, Tariq Ramadan, Yadh Ben Achour. E lo provano anche i numerosi documenti delle “Dichiarazioni dei diritti” islamiche, dalla Dichiarazione islamica universale dei diritti dell’uomo, del 1981, alla Dichiarazione dei diritti nell’Islam adottata dalla Organizzazione della Conferenza islamica del 1990, e alla Carta araba dei diritti dell’uomo del 1994. Sul significato e la portata entro in mondo islamico di questi documenti è in corso una ampio ed acceso dibattito. Anche nella cultura cinese si sta diffondendo un crescente interesse alla questione della protezione dei diritti individuali e dell’importanza del diritto nella pubblica amministrazione e nei rapporti interpersonali. Importante in questo senso è l’ultima Costituzione cinese, quella del 1982, più volte emendata. L’art. 13 dell’ultimo emendamento costituzionale, del 1999, stabilisce il principio del “governo del paese secondo il diritto”. Questo significa un impegno formale del Partito comunista cinese all’adozione del principio del “governo della legge” nella Repubblica Popolare Cinese. L’atteggiamento della autorità cinesi è comunque assai prudente nella adozione dei modelli politici e giuridici occidentali, rivendicando le differenze della propria tradizione politica millenaria, seguendo in parte le tesi dei fautori della autonomia degli Asian values, che ha preso piede nell’area del Pacifico, a partire da Singapore e dalla Malesia. La polemica su questi temi è molto vivace ed aperta, a partire dalla Dichiarazione di Bangkok del 1993. In Cina una serie di diritti soggettivi tutelati in Occidente (talora con gravi eccezioni, come la pena di morte negli Stati Uniti), non è costituzionalmente riconosciuta. Una ragione di più per alimentare il dialogo e non per soffocarlo.
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