| Nell’attuale panorama nazionale e internazionale trova che  la filosofia sia chiamata a un rinnovato impegno politico? La risposta è decisamente affermativa; dopo un lungo periodo  in cui, in modo particolare nella cultura italiana, ci si è rifugiati nello specialismo  settoriale, finalmente si assiste ad una svolta che vede impegnati  intellettuali e ricercatori in un rinnovato rapporto con la politica. Sono  convinto che tra lo specialismo e l’essere divenuti oggetti colti del culto  mediatico vi sia una terza via per i filosofi e questa stia nell’elaborazione  di un nuovo rapporto con il politico. L’aspirazione universale della razionalità filosofica cosa  perde e cosa guadagna quando, facendosi politica, entra a far parte del modo  dell’agire determinato? Ho al riguardo una prospettiva molto diversa da quella  argomentata da Jacques Rancière ne Il  disaccordo. Non credo né a una funzione regressiva della filosofia su  quell’oggetto “scandaloso” che è il politico – in questo caso si tratterebbe di  una funzione anestetica – né a una funzione meramente subalterna, puramente  vicariale. Bisogna ritornare a ripensare un rapporto tra teoria e prassi che  sia libero dalle pregiudiziali del passato, ma che possa riproporsi con  rinnovata attualità. Vi sono oggi a suo parere, specifiche tematiche a partire  dalle quali la filosofia può avvicinare la politica?  Credo che la problematica ottimale per la filosofia sia  quella della laicità, che è la struttura fondamentale dell’argomentazione  filosofica e, nel contempo, la struttura essenziale del tessuto democratico. La  laicità come filosofia  e come  democrazia. Attraverso differenti modalità la società civile manifesta  in questo periodo storico una diffusa insofferenza dinanzi alle strutture  tradizionali della politica. E’ solo l’espressione di un desiderio dissidente o  il diffuso sentimento antipolitico costituisce la reale indicazione di un  motivato malessere? Il sentimento dell’antipolitica corrisponde ad una crisi  della rappresentanza; la democrazia prima di essere rappresentativa è stata  partecipativa (si veda la sua origine nel mondo greco). Per superare quel  sentimento antipolitico è indispensabile tornare alle origini e colmare lo  scarto che separa il rappresentativo dal partecipativo.  La crisi di partecipazione che affligge da decenni il  nostro Paese può ritenersi solamente il risultato di un’insoddisfazione  rispetto ai tempi ed ai modi della politica, colmabile cioè con un adeguato  piano di riforma, o può considerarsi il sintomo di una più radicale crisi delle  forme rappresentative della democrazia? Bisogna recuperare il principio-associazione che è stato  completamente emarginato da quello contrattuale; il vizio di fondo del  contrattualismo è stato quello di assolutizzare il contratto, dimenticando che  gli individui che lo stipulano sono già in qualche misura avvinti da un legame  associativo. Riconoscere questo significa tornare ad avvicinare la società  civile alla democrazia rappresentativa.  L’autorità religiosa interviene, di recente, sempre più  spesso negli affari della politica istituzionale, laddove, soprattutto, è  questione di stabilire il limite morale all’utilizzo di determinate tecnologie  mediche (si vedano le numerose pronunce della CEI sulla legge 40). In che  misura la razionalità filosofica può aiutare la politica nello sviluppo di un  approccio laico alle questioni bioetiche? Cosa potrebbe fare, cioè, la  filosofia per ristabilire la discussione politica al ruolo di concorrente  preferibile alla religione? Sono contrario, in linea di principio, ad una interpretazione  ‘civile’ della religione che ne snatura la funzione. Sono invece favorevole ad  un concetto di laicità inclusiva o postsecolare, che tenga conto del nuovo  ruolo assunto dalle religioni nell’ultima parte del Novecento. Si tratta di una  laicità inclusiva e non settaria che può offrire un grande ausilio per la  soluzione delle grandi questioni bioetiche. Se la laicità dello Stato vuole porsi come alternativa  all’ingerenza politica delle istituzioni religiose, quale dovrà essere il suo  contenuto positivo? Non rischia infatti di essere puramente formale quel  concetto di laicità costruito solo come negazione del ruolo pubblico della  religione? Non è infatti intendendo così la laicità che si rischia di creare un  vuoto, piuttosto che di colmarlo, ed in tal modo di incoraggiare ancor più  radicalmente l’impegno politico delle autorità religiose? Credo che il concetto di laicità non sia puramente formale,  ma fondandosi sulla produttività del conflitto, abbia anche un contenuto  specifico che deve essere difeso. La laicità è un atteggiamento profondamente  diverso dal fondamentalismo. Si può essere fondamentalisti essendo laici e  fondamentalisti essendo credenti. La misura corretta della laicità sta nel  ribadire il rispetto per la pluralità. La laicità è l’atteggiamento anti-identitario  per eccellenza. Che contributo può dare l’Università al mondo e alla  coscienza politica?  Il contributo dell’Università, di un’Università  completamente rifondata, può essere sicuramente molto elevato. Bisogna tornare  allo spirito della grande conferenza tenuta da Joachim Ritter, Il compito delle scienze dello spirito nella  moderna società industriale. Lungi dal risultare obsoleto, in questo  compito sta invece anche il destino della contemporaneità.  |