| Nell’attuale panorama nazionale ed internazionale molti fenomeni sembrano  indicare una diffusa e crescente insofferenza nei confronti della politica, e  d’altra parte una difficoltà strutturale di quest’ultima ad accordarsi a tempi  ed esigenze mutate. Ci troviamo di fronte all’emergere di fenomeni antipolitici  o bisogna leggere in essi il segnale di una crisi più strutturale?  Non si può negare un carattere contingente dei fenomeni  in cui si manifesta oggi un’ insofferenza nei confronti della politica,  dipendente anche dal particolare degrado della classe dirigente, quale si  manifesta nelle stucchevoli e inutili diatribe che contrappongono destra e  sinistra, e nel basso profilo intellettuale e spesso anche etico che  caratterizza una buona parte del personale che ha compiti politici. Credo  tuttavia che il problema sia più radicale. Mi pare cioè che tutto il cammino  che dalle grandi rivoluzioni in poi ha cercato di togliere gli uomini dalla  dipendenza  e di farne i protagonisti  della vita politica – non sudditi, si dice, ma cittadini -  sia connotato, al di là degli indubbi  risultati che ha conseguito, da una serie di contraddizioni concettuali che  appaiono strutturali. Queste si possono riscontrare negli stessi concetti che  stanno alla base delle nostre costituzioni e che danno luogo a procedure che,  lungi dal favorire il rapporto tra i cittadini e l’esercizio del potere,  sembrano, al contrario,  dare luogo ad  uno iato tra questi che rischia di essere incolmabile. Lei sta dicendo quindi che i problemi strutturali  della politica nascono dai concetti con cui siamo soliti pensarla, dalle stesse  categorie concettuali più assodate della modernità. Può spiegare meglio questa  tesi?  Dai lavori e  dalle riflessioni che con altri conduco da molto tempo - sulla nascita dei  concetti moderni nell’ambito delle dottrine del contratto sociale e  sull’affermazione che questi hanno avuto nella storia fino a determinare quella  concezione egemone della politica che si manifesta nella democrazia - mi sembra  emergere un risultato paradossale. Proprio quei concetti che dovrebbero non  solo avvicinare il cittadino al potere, ma mostrare che il “potere è dei  cittadini” - mi riferisco alla sovranità del popolo e alla rappresentanza  politica - ebbene, proprio quei concetti creano una frattura. Anzi, proprio per  il fatto che essi tendono a fare del cittadino il soggetto del potere,  finiscono per renderlo totalmente subalterno e per azzerare la sua dimensione  politica: se il potere infatti gli appartiene e, a causa del suo stesso  fondamento, è già suo, egli non può esprimersi con una propria volontà politica  di fronte ad esso. Tale logica si manifesta nelle elezioni, nelle quali non si  esprimono volontà determinate, ma si autorizzano alcuni, attraverso la mediazione dei partiti, ad esprimere per tutti  l’unica volontà  del popolo, che si fa legge. Proprio a causa del fatto che  “autorizza” e dunque fonda il potere dal  basso, il cittadino non decide i contenuti del comando, che vengono dall’alto,  e dunque gli sono estranei anche quando riguardano situazioni, processi e  questioni di lavoro in cui i singoli cittadini sono implicati. Si tratta della  famosa dialettica di “autore” e attore”, nata con Hobbes e affermatasi nelle  costituzioni moderne, secondo la quale tutti sono “autori” di azioni che in  realtà non compiono, in quanto sono demandate a quell’attore politico che le  compirà in vece loro. Questa, schematicamente, mi sembra sia la difficoltà di  fondo di ciò che si intende, a livello delle procedure costituzionali, per  “legittimità democratica”. Se si può dire che ai nostri giorni questa mostra di  vivere anche da un punto di vista epocale una crisi, assieme alla statualità,  mi sembra che si debba per altro   riconoscere che è la sua stessa logica ad essere aporetica. Il  diffondersi a tutti i livelli di quelle esigenze e di quei processi che si  indicano spesso con il termine di governance,  lungi dal fornire nuove forme di legittimazione, mi sembra sia un indicatore  emblematico dell’incapacità del meccanismo rappresentativo, che è insieme di  legittimazione e di costituzione del potere, di dare risposta da una parte al  problema del concreto governo dei processi, e dall’altra all’esigenza di  partecipazione di tutti i soggetti che in quei processi (siano questi  giuridici, economici, di organizzazione del lavoro, culturali ecc.) sono  implicati.  Da dove  ripartire quindi, in seguito ad una diagnosi così radicale?  Io credo sia  necessario ripartire dalla comprensione delle contraddizioni e della opzione di  fondo, del “valore”, che provoca quelle contraddizioni. Questo valore, da un  punto di vista teorico,  consiste nella  funzione  fondante che viene attribuita  all’individuo nei confronti della società (ambedue questi termini indicano mere  astrazioni del pensiero) e nel ruolo che ha, nel dispositivo moderno della  politica, il concetto di libertà. Si badi bene: non è qui in  questione la libertà in quanto tale (che è  per altro tutta da pensare),  ma quel concetto di libertà che consiste  nell’indipendenza della volontà, secondo cui ognuno può agire a proprio  arbitrio purché non impedisca l’uguale libertà dell’altro. Non è difficile  mostrare, seguendo la costruzione del giusnaturalismo moderno, come sia questo  concetto di libertà a produrre quello di sovranità. Se questo è vero, allora,  per superare la sovranità bisogna anche superare quell’assolutizzazione  dell’individuo e della sua libertà che è posta alla base del modo moderno di  pensare la politica. Ciò è possibile se si concepisce diversamente l’obbligazione  politica e il senso e le modalità del   comando politico. Quest’ultimo cioè dovrebbe essere pensato - ma non si  può in breve spazio darne ragione - non nel senso del concetto moderno di potere politico, ma in quello della  nozione di governo, intesa in un  senso forte e legato allo stesso etimo del termine. Ne risulterebbe allora non  tanto un modello che risolverebbe le difficoltà a cui si è sopra accennato, ma  piuttosto una direzione da intraprendere. In questa  emergerebbero come strutturali, una serie di categorie che sono  solitamente rubricate mediante la parola di “democrazia”, ma che non  trovano realizzazione nel modo in cui si  intende la democrazia come forma costituzionale sulla base dei due principi della  sovranità del popolo e della rappresentanza. Mi riferisco alla necessità di  comprendere la pluralità, di intendere in una dimensione politica l’emergere di  nuovi soggetti che rivendicano diritti e   differenze non riconosciute, di considerare come guida categorie come  quelle di solidarietà, responsabilità e  partecipazione,  intese non tanto come  imperativi etici  per un fine di moralizzazione della politica, ma come l’esito di un modo  “costituzionalmente” diverso di pensare la realtà politica.  Eppure gli equilibri politici creatisi su  scala nazionale nel Novecento hanno saputo garantire meccanismi, per quanto  imperfetti, di inclusione sociale, di estensione dei diritti di cittadinanza, e  di partecipazione politica. Come tutelare e promuovere queste istanze su scala  non più nazionale, di fronte all’avanzare dei processi sempre più pervasivi di  globalizzazione economica? Mi pare che  sia necessario a questo proposito comprendere le esigenze che spesso si  manifestano nelle richieste e nelle lotte per i diritti, cambiando però lo  statuto della loro pensabilità. Togliendo cioè quell’aspetto individualistico e  di neutralizzazione che mi pare insito nel concetto dei diritti degli individui  (che non hanno limiti nella loro estensione) e superando anche quel nesso  indissolubile con il potere che fin dalla sua nascita - teoricamente nel  giusnaturalismo e storicamente nelle costituzioni – lega la tematica dei  diritti alla costituzione di un potere immane quale è quello politico (che  detiene appunto il monopolio della forza). Nei trattati di diritto naturale è  infatti il punto di partenza costituito dai diritti dell’individuo – in primis  uguaglianza e libertà – a portare, come si è detto, mediante una ferrea logica,  alla costruzione del concetto di sovranità. Anche nella dichiarazione dei  diritti dell’uomo posta in testa alla costituzione (si pensi alla Francia della  rivoluzione), vi è un nesso di necessità tra i diritti e la costituzione di  quel potere statale che deve garantirli (ciò è da ricordare anche quando si  vuole pensare la politica a livello mondiale sulla base della teoria dei  diritti). Un superamento di tale logica si potrebbe forse dare se, al posto dei  diritti dell’individuo, si riconoscesse la centralità e innegabilità della  relazione con l’altro, del rapporto,  per la stessa costituzione della soggettività. Si provi a pensare a una tale  funzione costitutiva dei rapporti e si vedrà che muta radicalmente il modo di  pensare la politica; si presenta un compito di reciproco riconoscimento e di  accordo a tutti i livelli, da quello locale a quello mondiale.  Il problema di una “pluralità  irrappresentabile” sembra assumere nelle attuali società “post-secolari” un  connotato molto più dirompente ed inquietante, della carica emancipativa  associata inizialmente all’espressione. C’è chi negli istituti e nelle  procedure dello Stato di diritto vuole affidare una funzione semplicemente  ancillare e suppletiva, denunciandone l’intrinseca mancanza di fondamenti  valoriali - come l’attuale gerarchia della Chiesa cattolica; e chi d’altra  parte ne rivendica un’estranietà radicale, come il fondamentalismo islamico. Da  dove ripartire per ripensare la laicità come terreno comune di appartenenza  politica tra diversità, una volta sottoposto ad una critica radicale il  paradigma del costituzionalismo moderno? Le istanze che  mettono in crisi la rappresentanza restano prive di effetto politico se non  portano a pensare la rappresentanza in modo diverso, che oltrepassi le aporie  del concetto moderno di rappresentanza quale si esprime nelle odierne procedure  elettorali. Se la pluralità è pensata come “irrappresentabile”, si rischia di  confermare il nostro permanere nella morsa costituita dal nesso di sovranità e  rappresentanza. Questo è il pericolo che si corre se si declina il concetto di  singolo come irriducibile al rapporto formale di obbligazione politica, o il  tema filosofico dell’eccedenza di ciò che non è obiettivabile e riducibile ad  oggetto del nostro sapere positivo  -  problema certo strutturale nella filosofia ed emergente anche nella politica -  nella forma dell’indeterminazione della pluralità a cui di volta in volta ci si  riferisce. Solo incrociando la rappresentanza con la determinazione delle  differenze (certo sempre in movimento e mai fissate una volta per tutte) è  possibile pensare queste ultime nel loro significato politico. Mi pare che  questo valga per quelle che di solito si indicano come differenze nella società  civile,  così come per le differenze  delle religioni e delle culture, che ormai emergono non solo nella scena mondiale,  ma anche  all’interno di quelle realtà  che sono gli Stati. La comune appartenenza dei diversi si deve pensare non  mediante la riproposizione di quel senso della laicità che  sta alla base della razionalità formale che  denota i concetti moderni della politica; cioè una laicità che fa tutt’uno con  la neutralizzazione delle diverse idee della giustizia e della diversità delle  fedi e delle culture, le quali vengono così ad assumere lo statuto di mere  opinioni cui spetta un  carattere privato. Mi  pare che il problema sia quello di trovare nella diversità  che si manifesta nella pluralità dei  rapporti sociali e in quella delle fedi e delle culture, le ragioni  dell’accettazione dell’altro e della vita in comune. Si impone cioè un compito  di “comprensione”, nel senso etimologico del termine, delle differenze a  livello costituzionale. Senza ritrovamento di un  “comune” condiviso non ci può essere pluralità. Certo questo è un  compito difficile e rischioso, che non è garantito da quella connessione  immediata di diritto e forza che ha prodotto lo Stato e lo stato di diritto.  Inoltre a questo fine appare insufficiente e fuorviante la concezione di una  immediata e spontanea concordanza tra gli uomini, in un semplice spazio di  cooperazione,  che qualcuno chiamerebbe  orizzontale, ma appare necessario un modo diverso di intendere il comando  inevitabile nella società, un modo che si può declinare nella direzione del  “governo della pluralità” o delle differenze.  Di fronte ai problemi affrontati finora, la  filosofia è chiamata ad un rinnovato compito di critica e di riorientamento  della prassi, addirittura a riscoprire una rinnovata vocazione all’“impegno”  politico? E fino a dove si può spingere in questa direzione senza perdere ciò  che la caratterizza specificamente come sapere?  Credo  che il ruolo della filosofia politica sia proprio quello di problematizzare ciò  che appare ovvio e di pensare la realtà al di là dello schermo costituito dalla  teoria e dalla ideologia. Un tale lavoro può servire non a dare  chiavi di soluzione sul che fare, ma forse  linee di orientamento. Devo dire che è difficile oggi trovare uno spazio in cui  sia possibile un tale lavoro di critica e di comprensione: non lo è certo  quello politico o partitico, ma nemmeno quello dei media o delle aggregazioni  culturali più o meno impegnate, come quelle che danno luogo ai dibattiti di  note riviste di politica e di cultura.   Ho cercato recentemente di delineare la pratica di una tale filosofia  politica. Schematicamente si può dire che questa consista nell’interrogare quei  concetti e quei valori che usiamo - tutti noi e i soggetti politicamente  impegnati - immediatamente come valori che ci permettono la lotta politica e  che, prima di tutto ci rassicurano di essere “dalla parte giusta”. Se non si  intraprende questa avventura filosofica si rimane a pensare con il paraocchi  costituito da quei concetti che sono diventati doxa condivisa  e  non ci si accorge che i veri problemi sono quelli che emergono  nel momento in cui  si ha consapevolezza delle aporie che caratterizzano i  presupposti stessi su cui si dà oggi il terreno della contesa politica. Né  destra né sinistra hanno percezione di queste aporie. Il problema non consiste  in chi è più democratico, ma nelle   difficoltà che sono proprie  dei  concetti della democrazia e che stanno alla base delle costituzioni e delle  procedure costituzionali. Ma se in ciò consiste il lavoro filosofico in  relazione alla politica, difficile appare intendere quale rapporto un tale  lavoro filosofico  abbia con la prassi e  con l’impegno politico, una volta che sia chiaro che questo lavoro filosofico è  ben altro da quello della costruzione di teorie e di modelli, e che si  manifesta come il compito di pensare la realtà. Di pensarla, non di registrarla o fotografarla, e dunque di capire  quello che è il suo meglio, e  dunque anche quello che è il nostro meglio, come ha detto Alessandro Biral, che  ha dato un contributo straordinariamente   rilevante alla filosofia politica contemporanea - in una conferenza, da  poco pubblicata postuma, nella quale pensa la politica in modo che appare assai  dissonante dal coro che ci contorna. Contro il nesso di teoria e prassi, che è  diventato nell’epoca moderna un topos comune,   mi pare che il problema sia quello del rapporto tra la forza logica  della critica filosofica e il rischio proprio della  scelta e della proposta che è connaturato alla prassi. Non si  tratta di dedurre dalla teoria una giusta politica,  ma non si può nemmeno pensare alla semplice estraneità tra  filosofia e prassi. Si tratta forse di trovare di volta in volta proposte che,  pur avendo un carattere arrischiato, sono tuttavia in qualche modo orientate dalla comprensione filosofica. Che contributo può dare in questo senso  l’università come luogo di produzione, di conservazione, di trasmissione di  saperi nonché di possibile formazione critica? Certo, da quanto si è detto, l’Università, proprio in  quanto istituzione dedita alla ricerca e alla trasmissione del sapere, e in  quanto sottratta all’immediato impegno politico, dovrebbe e potrebbe essere  –  in qualche raro caso per fortuna lo è  – il luogo per una formazione critica, che appare sempre più necessaria e  urgente. Purtroppo, se si ha conoscenza dello stato in cui l’università si  trova in quanto dominata da una logica “accademica”  che rischia continuamente di azzerare un reale impegno  riguardante la ricerca e la formazione, non c’è da essere molto ottimisti. Da  una parte, per i meccanismi sopra ricordati, non c’è possibilità di intervento  da parte di chi concretamente lavora nell’università sulle scelte che su di  essa si esercitano: in base al meccanismo del potere legittimo sopra indicato,  queste vengono dall’alto di una classe politica eletta mediante i partiti sulla  base di impegni del tutto generici e di solito non onorati, impegni che servono  ad organizzare un consenso predeterminato al concreto dell’azione politica.  Dunque non c’è partecipazione alle scelte politiche. D’altra parte, l’autonomia  dell’università, che sarebbe preziosa in un quadro federalistico di  responsabilizzazione dei soggetti politici, è giocata nella direzione della  sottrazione di responsabilità del corpo docente nei confronti del complesso  della società e nella indipendenza di un comportamento  che, al di là degli scandali che spesso  emergono, funziona, si può dire strutturalmente, secondo esigenze e scopi  che  sono altri da quelli  della ricerca e della formazione. Se si  conoscono i meccanismi universitari, si provi a riflettere su quanto sia  casuale l’incontro tra le reali esigenze della ricerca e della didattica, con i  livelli di eccellenza che in questi due campi si esprimono e si possono  esprimere, e la prassi concreta dei concorsi di assunzione e di promozione del  personale, e dunque di riproduzione della classe accademica. E questo anche  quando si sbandierano livelli di eccellenza. Il problema non è tanto quello di  un comportamento corporativo, ma della perdita del senso e della dignità del  proprio essere e del proprio ruolo e della mancanza di quella responsabilità  politica – intesa questa come categoria non morale ma “costituzionale” - in cui  l’autonomia dovrebbe essere pensata. In una situazione del genere quella  pratica della filosofia che è necessaria al compito da lei indicato rischia di  essere spesso difficilmente rintracciabile. |